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Torino Film Festival 98
Acqua, terra, rovine
Il cinema-saggio di Jean-Daniel Pollet

MEDITERRANEE

All'inizio degli anni '60, dopo l'insuccesso critico del "La Ligne de mire", Pollet decide di abbandonare, momentaneamente, il cinema narrativo per dedicarsi al documentario. E' in quel periodo che pensa di fare il giro del Mediterraneo. L'autore percorrerà 3500 km in poco più di tre mesi raccogliendo immagini con una cinepresa da 16 mm.

Il regista parte senza una sceneggiatura e senza un piano di lavoro, ma con la sola idea di voler riprendere un solo soggetto per inquadratura. Egli desidera andare oltre la semplice osservazione impostando il proprio sguardo in modo introspettivo per "penetrare nei differenti soggetti". Un solo soggetto per inquadratura, quindi, di modo che, come spiega Pollet, l'oggetto singolo, ripreso e trasformato in immagine assuma la funzione e la valenza di una parola, di un segno. Ciò che il regista fa decontestualizzando è liberare l'oggetto dai vincoli che lo tengono legato alla realtà circostante dandogli una nuova dimensione spazio-temporale, quella del cinema. Immerso nella realtà esso non è che un componente, un pezzo, una parte, un elemento che ha un senso regolato da ciò che lo circonda, che significa attraverso un contesto e che quindi, inevitabilmente, conforma il proprio contenuto semantico con quello degli altri oggetti, perdendo, in parte, la propria singolarità per armonizzarsi con l'insieme. Nell'universo cinematografico esso assume una diversa significazione: attraverso il primo piano ed il particolare Pollet rapisce l'oggetto che, isolato dal tutto, diventa realtà autonoma. Spezzati i legami che lo contestualizzavano assumerà inevitabilmente un significato individuale in quanto manifestazione univoca, ma contemporaneamente, in assenza di riferimenti, il proprio contenuto semantico avrà un margine di indefinitudine. Senza l'ancoraggio di un contesto l'oggetto diventerà massimamente espressivo, la propria potenzialità semantica sarà proporzionale al grado di decontestualizzazione e alla durata dell'inquadratura. In questo modo l'immagine acquisisce la funzione di parola che, come scrive Pollet, "assume un significato definitivo solo in funzione del posto che le si assegna in una frase".

"Volevo ad ogni costo preservare la presenza libera delle cose" ed è secondo questo principio libertario che il regista si muove affrancandole, dando loro delle nuove coordinate spazio-temporali che permettano il massimo dell'espressività. Pollet userà le immagini-parole come materiale grezzo per creare una nuova realtà. Accostandole ed incastrandole attraverso il montaggio le ricontestualizzerà nel film dando loro una stabilità semantica definitiva. In un primo momento, quindi, egli sottrae gli oggetti da una realtà plurale che li massifica per riinserirli singolarmente accostati in un nuovo spazio da lui creato. Lo stesso criterio libertario che caratterizza l'operazione decostruttiva sarà anche la costante della seconda fase in cui il regista combinerà attraverso un montaggio seriale le immagini-parole creando delle sequenze-frasi. Il suo obbiettivo è, come si diceva, quello di "preservare la presenza libera delle cose" ed è, infatti, secondo un profondo ed assoluto rispetto ontologico che il regista monterà le inquadrature.

"Questi giochi di analogie hanno lo scopo di ridare alle cose il loro potere di rivelazione originale e dimenticato". Ridare voce al "mondo muto", quindi, è possibile associando le immagini non secondo una "logica cosciente" che è "semplificante e categorica" e che "si basa su meccanismi che censurano", ma, appunto, secondo analogie. Facendo "saltare le distinzioni arbitrarie fra reale e immaginario, fra passato, presente, futuro" egli crea una dimensione svincolata dalle leggi spazio-temporali in cui non c'è più posto per criteri razionalizzanti e categorici, ma soltanto lo spazio per la poesia libera delle cose.

Vanessa Durando

 

 

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