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Da Sodoma a Hollywood
Torino, 13-19 aprile 2000

L'edizione che ha registrato il maggior successo di pubblico della rassegna del cinema a tematica omosessuale, sopravvissuta a quindici anni di alterne vicende e notevoli lotte ingaggiate contro l'omofobia strisciante in ogni ambiente e con il distacco di parte della comunità gay locale, è anche quella in cui domina la volontà di venire integrati: rinuncia del proprio ruolo tra(n)s-gressivo o dimostrazione e rivendicazione di una propria normalità da parte degli autori omosessuali? Ma hanno ancora bisogno di inseguire una legittimazione attraverso la limatura di ogni prerogativa gay per venire accettati? Se è così, non rischiano all'opposto di perdere la carica liberatoria dell'eversione sfrontata senza per altro verso convincere i retrivi benpensanti della necessità di lasciare che gli omosessuali vivano in pace la loro sessualità e godano delle icone e dei riferimenti che si sono dati in trent'anni di Gay Pride?

A questo in parte risponde il lungometraggio premiato, Sobraviviré, che nel solco del successo di Almodóvar unisce la carica di comicità alla pulsione verso la conciliazione con il mondo: stessa sfiga melodrammatica con minori dosi di sorprendente comicità e movida, compensate dall'introduzione alla pari di componenti non privilegiate del mondo omosessuale. La sconfitta del "camp" rende più fruibile il cinema di derivazione gay anche agli eterosessuali: si direbbe che si stia trasformando in cinema bi-sessuale. Potrebbe essere un modo per rendere accettabile l'intero discorso sulla sessualità liberandola da restrizioni moraleggianti e anatemi squallidamente superstiziosi di un arcaico signore biancovestito gesticolante da un balcone romano.

Si tratta di un approccio diverso da quello del film con Madonna e Everett, ormai cliché di se stesso, nonostante si ritrovi il bisogno irrefrenabile di procreare, di creare una famiglia, necessità primaria preclusa dalla chiusura sul riconoscimento delle coppie di fatto, che storicamente sfocia nell'intolleranza nazista denunciata con rigore nel bel documentario Paragraph 175, come nello sceneggiato di Rosa von Praunheim su Magnus Hirschfeld, oppure trova sfogo nell'assassinio di marchettari. Un episodio di questo tipo dà luogo a Tenshi no Rauken, un lavoro giapponese a tratti confuso, ma incisivo nella manipolazione delle immagini e nella costante oscillazione delle innumerevoli tecniche di ripresa allo scopo di non dare mai la certezza che si tratti di fiction.

La sindrome da The Next Best Thing ha aleggiato su parte del programma, sviscerando lo scoglio rappresentato dalla "famiglia" sotto molteplici aspetti e sempre con risultati migliori dell'annacquato film di Schlesinger con cui si è inaugurata la kermesse, che con il suo punto annuale della situazione permette di denotare i minimi cambiamenti rispetto ai temi più sentiti: se qualche tempo fa il problema più evidente era quello della prima presa di coscienza della propria preferenza sessuale, non di maggioranza relativa (In&Out fu l'espressione più tipicamente hollywoodiana di quell'ossessione, che però come sempre era solo l'acquisizione dell'industria di un dibattito che legava molte pellicole meno mainstream), quest'anno si contano, oltre al bellissimo omaggio a Bogarde nel primo film in cui il protagonista è dichiaratamente omosessuale (Victim, di Basil Dearden, 1961), benché sposato con una ignara donna che ha una reazione civilissima al momento della scoperta, almeno quattro esempi di creazione di famiglie o di paraventi familiari dietro ai quali occultare la "diversità": Two point five, corto dell'americano Gregory Sirota, spinge più sul pedale degli scontri all'interno della coppia che rispetto all'esigenza o meno di fare un figlio si divide, quando addirittura David fa del sesso eterosessuale con un'amica per procreare; mentre l'altro corto statunitense di George Camarda The Olive Tree in 26 minuti riesce ad affrontare il tema dell'HIV, elemento che spaventa la donna, lesbica, chiamata ad affittare il corpo per regalare un bimbo ad una coppia gay, mescolandolo alla pietà per la morte di uno dei due uomini e alla loro decisione di avere rapporti eterosessuali pur di ottenere il figlio. Una decisione che supera l'eventualità della morte e costituisce una nuova strana coppia di due individui che, superata la paura dell'AIDS, si mettono insieme per far nascere quel progetto nato all'interno della primitiva coppia omosessuale. Tra i film che stanno ancora a cavallo tra il problema del rifiuto di scoprire se stessi froci e il bisogno equivalente di comporre questa dicotomia tra il voler essere e la propria essenza si collocano un lungometraggio americano Edge of Seventeen di David Moreton, ambientato negli orribili Anni 80, dove un ragazzino per nascondere prima di tutto a se stesso la propria tendenza cerca una relazione con la ragazzina da sempre destinatagli. É un po' quello che avviene nel campo scout belga di Kampvuur, ma solo dopo che si è consumata la conoscenza del corpo omosessuale e si è subito l'isolamento della comunità e lo scontro davanti al tipico falò scout.

L'ultimo esempio di eterizzazione del gay proviene dal Perù di No se lo digas a nadie, film di Francisco Lombardi fondato sulla novella di Jaime Bayle - ma ancora maggiore è l'eco dei primi romanzi di Vargas Llosa, che ammanta di statica immobilità culturale della società sudamericana fissata nelle convinzioni degli Anni 50, di cui si avverte l'atmosfera: "Perché hanno colpito Hiroshima e non Lima?" - e lungo percorso che segue l'evoluzione del bimbo che di nuovo in un campo scout scopre l'attrazione per il compagno di tenda, fino a che Joaquím trova il suo uomo nel fidanzato di un'amica della ragazza con cui tenta di scopare (riuscendoci pure dopo alcuni fallimenti); i due si nascondono dietro alla facciata delle due fanciulle finché Joaquím fa esplodere lo scandalo. Ma il gesto dirompente, la sfida nei confronti del genitore - descritto fin dall'inizio come razzista, omofobo, fascista proprietario terriero, che investe un indigeno senza fermarsi a soccorrerlo in modo che il regista possa dimostrare l'indole -, l'aver reso innocua la madre e le sue suggestioni bigotte che consentono anche alcune gustose scenette relative alla demonizzazione del sesso da parte dei preti non è sufficiente a scagionare la pellicola dall'epilogo vergognoso delle nozze tra Joaquím e la giovane, che non trova altra parola per definire la sua difficoltà a fare l'amore con lei se non "sterile". Si trovano alcuni spunti nel film pregevoli: l'energia e la rabbia che esplode ogni qual volta il protagonista paventa il rischio che venga scoperto; un vigore dato dalla paura inculcata dall'ambiente; la figura della puttana pagata dal padre che sa capire il suo travaglio e gli consiglia: "Segui il tuo istinto sennò patirai le pene dell'inferno"; la risposta finalmente recisa: "Sono gay" al padre che lo invita a discutere "da uomo a uomo". Notevole, benché ambigua, la sequenza in cui scopano sulla spiaggia perché "Non voglio essere frocio": si evidenzia in quel frangente la vera "violenza contro natura" che il giovane subisce nell'atto, più di quanto non emerga nelle facili per quanto divertenti spiegazioni sulle differenze tra lo scopare con uomini o donne: "Con le donne è più facile, ma alla fine manca sempre un pezzo di carne". Il problema maggiore della pellicola - e di conseguenza dell'intero dibattito - sembrano i molti cliché che si devono adottare per affrontare ancora adesso la paura di scoprirsi gay in qualunque parte del mondo.

Infatti come tra le scorribande di Joaquím si trova anche il pestaggio di un viados, cui lui non partecipa ma è complice passivo, allo stesso modo nel mediometraggio giapponese di Akihiro Suzuki Tenshi no Rakuen lo spunto è la figura di un giovane la cui effigie viene ricostruita post mortem, avvenuta in seguito ad un pestaggio omofobo. Egli era attore di film porno e quindi si possono intrecciare ricordi illustrati da video con sgranature di super8 che documentano feste in un tremolio che farebbe l'invidia di Dogma95 se non ci fosse questa commistione di mezzi diversi, che concorre a infondere una suggestione particolare alle immagini sicuramente originali del film, fatte di controluce, sovraesposizioni, primi piani illuminati da fioche luci isolando ampie parti di oscurità, coloratissimi videogiochi su cui si stagliano le figure ancora più immateriali dei partecipanti alle veglie funebri come delle feste, mentre la corporeità del giovane ucciso è sempre sottolineata dal pastoso cromatismo del super8. Ottimo il lavoro che il giapponese compie sulla banda sonora, che scorre per conto proprio per una parte del film, salvo venire recuperata da certe immagini che la rimettono in sincrono con la parte visiva. Purtroppo la commistione di viaggi e montaggi rende sconclusionato il lavoro, nonostante l'epilogo si leghi con l'inizio attraverso il proposito di telefonare a Reiko, con cui s'iniziava la passeggiata lungo il fiume di Tokyo.

Come avviene in Gypsy Boys di Brian Shepp, nel quale evolve lo stereotipo del locale-ghetto e si godono gli aspetti più melodrammatici grazie alla commistione con siparietti onirici che pescano nell'infinità di generi cinematografici attraverso i quali interpretare la realtà, così si rispolvera la vecchia e pur sempre piacevole iconografia dell'immaginario gay nel corto presentato da Rosa von Praunheim: Can I Be Your Bratwurst, Please? Che riprende la battuta finale del film, incentrato su una cena di Natale totemica di cui è protagonista una pornostar oggetto del desiderio di tutti gli ospiti di un motel californiano. L'autore si diverte a portare all'eccesso l'atmosfera del luogo mistificato dall'immaginario, inscenando serie di cliché iperrealisti, fotografati con profusione di grandangoli e situazioni codificate, che denotano la loro derivazione filmica con colori artificiali e espliciti riferimenti non tanto a personaggi e attori, quanto alle loro caricature in un gioco di rimandi infinito di cui non si può mai cogliere l'originale. É una sarabanda kitsch che prende avvio da uno sketch in cui si inscena l'ultima notte di Marilyn con JFK, il protagonista pornostar (con l'arnese di lavoro ben in evidenza fuori della doccia), a cui fanno seguito tutti i luoghi comuni del vagheggiamento gay: i bluson noir, le drag queen, gli oggettini illuminati e di forti contrasti cromatici (e mistici) come un Sacrocuore di Gesù a tutto schermo mentre il protagonista cambia costantemente ruolo fino all'apoteosi eucaristica con il banchetto orgiastico che lo vede intervenire come portata principale disteso sul tavolo come l'amante del film di Greenaway (The Cook, the Thief, his Wife and her Lover), probabilmente presente nella memoria del regista al momento di fabbricare la scena.. Alcune sequenze sono esilaranti come quella della massaggiatrice shatzu o come il terremoto che volutamente viene realizzato in modo tanto artificiale da risultare incomprensibile, eppure divertente nella sua totale surrealtà, oppure il dettaglio della Grave Line Tour che gli organizza un percorso turistico lungo i boulevards su cui sorgono le ville dei divi hollywoodiani destinati ad essere fagocitati e uccisi dalla fama stessa, ma soprattutto è greve la sensazione mortifera che grava sul sistema del cinema degli studios, fortemente condannati dalla satira del regista tedesco, che dà il meglio in una boccaccesca rivisitazione della morte di Murnau. "Mangi o ti piace essere mangiato?" è il commento finale che introduce all'ambiguamente allusivo titolo del film.

Ma Rosa von Praunheim ha presentato anche Der Einstein des Sex. Leben und Werk des Dr. Magnus Hirschfeld, un lavoro che si affianca a quello esaustivo e ricco di materiali di Paragraph 175; l'eccellente lungometraggio sullo sterminio nazista dei triangoli rosa che ha vinto la sezione dedicata ai documentari trova un corredo nella fiction dell'autore di Ein virus Kennt keine Moral e Horror vacui ospitati nella prima edizione del Festival. In questa occasione segue pedissequamente le tracce di Hirschfeld, creando un canonico ritratto del nemico più deciso della vergognosa legge sull'omosessualità rimasta in vigore fino alla fine degli Anni 60. Pregevole l'uso delle stampe, i tableaux vivants rinascimentali e l'attenzione per le sculture eccentriche e per gli oggetti - ad esempio i coglioni tatuati di un nobile cinese regalati a Marco Polo - andati perduti a causa della brutalità ottusa dei nazisti che distrussero la fondazione (episodio documentato nella finzione da sceneggiato divulgativo) e di cui viene ricostruita parte della collezione. La sensibilità artistica risulta ancora più pronunciata se si confrontano certe caricature riprese dal regista come se si trattasse di disegni usciti dalla matita di Grosz, non potendo che inchinarsi di fronte alla notevole preparazione filologica del visionario autore, che poi infila una serie di immagini (ad esempio le nudità scultoree del tiro alla corda) in tutto simili all'esaltazione del corpo teutonico nazista. Del film risulta interessante l'autocastrazione del protagonista, che per non essere incarcerato in base al paragrafo 175 si nega una sessualità di cui è consapevole per timore delle denunce; è questo l'aspetto che più interessa all'autore del film e lo rimarca usando per lo più i mezzi del melodramma: sguardi, silenzi, gesti improntati a sollecitudine fermati a metà dal timore. Il film si dipana scandito dalle date enucleate con precisione lasciando però spazio al travestitismo tanto amato dal regista nella sequenza quasi fassbinderiana dell'invito al commissario, omofobo ma curioso di vedere un ambiente di "depravazione", attratto dalla sua stessa "avversione e disprezzo". Anche qui non manca il medico corrispondente che in piena buonafede pensa di iniettare sperma eterosessuale ai "malati" di omosessualità; ovviamente Praunheim è più ironico dei suoi colleghi che fanno un'operazione simile con l'eterizzazione cinematografica forzata.

Si cita Nietzsche, il filosofo che la vulgata vorrebbe fosse proto-nazista: "Ciò che è naturale non può essere immorale". Ci sembra una chiosa adatta al 15° Festival di Film a Tematiche Omossessuali.

Adriano Boano

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