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Cinema e Arte del Metissage - Torino 26 ottobre/10 novembre 2005

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Aprilkinder (Bambini d'aprile) di Yüksel Yavuz (1999); dur.:84'

La diaspora della tradizione curda

Interessante per l'atmosfera che riesce a restituire: lo sbando di un'intera famiglia, che senza riferimenti va alla deriva aggrapandosi a tradizioni svuotate, perché trasportate in Germania... ma forse non è solo l'allontanamento dal territorio curdo che contribuisce al dolore profondo derivante dal male di vivere.

Una famiglia curda con il padre "rotto", una figura che dovrebbe nella tradizione rappresentare il riferimento, che passa il tempo su un divano, malato, distrutto dal lavoro che non può più affrontare. Altrettanto laconico è il protagonista, avviato sulla stessa china, taciturno, monocorde nelle espressioni, anche sul lavoro non si lascia coinvolgere negli scherzi: l'inizio del film lo introduce con una carrellata in piano sequenza che lo riprende mentre trascina il carretto colmo di carni da lavorare e così ce lo mostra nell'ambiente puzzolente del macello di suini di Amburgo.

La sequenza precedente lo aveva mostrato nell'altro ambiente: la casa, dove era stato attaccato pesantemente dal fratello, che no sopporta l'odore; lo scontro verbale è feroce e mette in scena subito - in modo un po' schematico - le due opzioni per i giovani curdi emigrati da ragazzini: il sottomesso operaio marginale destinato alla sconfitta sociale come il padre, oppure il gangster deciso a tutto (che un po' si perde nel finale: la sua vicenda non è risolta, proprio perché è forse quello più integrato nella società tedesca, mentre al regista evidentemente interessa quella zona di mezzo, che non comprende né il giovane che ha rinunciato a ogni identità e si sforza di sopravvivere nel crimine, né il padre non integrato e ormai ombra; rimangono la sorella minore, con impulsi sessuali adolescenziali, che sarebbero frustrati da inesperienza tabu e dalla cultura d'appartenenza, se non superasse quest'ultima accantonandola e prendendo l'iniziativa. La sua liberazione è parallela a quella, invece abortita, del fratello lavoratore.

Bella l'idea di far passare l'unica esperienza alternativa di Cem attraverso la storia con una entreneuse tedesca, fatta di passione e languidi abbandoni, di incontri ricercati e temuti, perché permane la spada di Damocle di un matrimonio con una cugina che deve arrivare dal Kurdistan: un avvento minacciato fin dall'inizio del film a cui tiene moltissimo la madre, che vede in quella cerimonia un modo di ripescare il bandolo della normalità persa, della cultura lontana, della perpetuazione della famiglia. Finirà così, in una cerimonia svuotata di ogni senso ma che in superficie riaggancia gli anelli della tradizione.

Le figure delle due donne si ergono contrapposte: la promessa sposa si svelerà solo nell'ultima sequenza quando lui l'acceterà come sposa sollevando letteralmente il velo, ma prima incombe sui suoi pensieri per tutto il film: nella sua espressione aggrottata c'è la preoccupazione che anche lei si arrovelli allo stesso modo: "Se avesse qualcuno a cui deve rinunciare per questo matrimonio combinato?", confessa alla sorella, senza rivelarle che sta rispecchiando il proprio rovello sulla sposa. Una sensibilità particolare che viene a mancare alla fine con la ragazza tedesca, nelal terribile scena che li vede disperatamente allacciati in un orgasmo violento sulle scale dell'appartamento dei genitori (motivo di atriti è anche l'angustia degli spazi abitati dalla famiglia) che hanno appena negato di avere un figlio chiamato Cem alla bella teutonica che lo era andato a cercare.

Sullo sfondo affiorano i problemi dell'immigrazione clandestina, dell'organizzazione dei viaggi, delle notizie sulla distruzione dei vilalggi curdi che appoggiavano troppo i peshmerga... quanto sia datato questo aspetto politico a noi, distanti tanto dalla Turchia quanto dalla Germania, non è dato sapere.

adriano boano