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La competizione del Festival del cinema Africano punta sul messaggio "no war"

Il festival del Cinema Africano, in programmazione fino a domenica 30 marzo a Milano presso le sale Spazio Oberdan, Multisala Arcobaleno, Auditorium San Fedele, Espace Cinema (programma consultabile su www.festivalcinemaafricano.org) con la sua coerente "missione" di diffusione dello sguardo altro, ha selezionato pellicole e video che scandagliano i temi della guerra, dell'oppressione e dei mali del nuovo secolo da ogni punto di vista. Attraverso conflitti e contrasti rappresentati, evocati, negati, comunque riconosciuti.

Finora il cinema algerino è quello che meglio ha offerto una visione lacerante agli occhi di noi occidentali delle ragioni e dell'insensatezza a cui viene sottoposta la popolazione di quel paese. Quanto tutte le popolazioni del mondo "non sviluppato".

Mehdi Charef, non presente a Milano, presenta in concorso la sua ottava opera Bent Keltoum (La figlia di Keltoum). Una pellicola forte nella tematica: le ragioni del terrorismo che impone un coprifuoco irragionevole, le tradizioni che emarginano la donna, la ricerca delle proprie origini: "voglio tornarci, ma perché? Solo per tornarci o per girare un film? La mia professione mi ha portato a confondere la realtà con la finzione: ho perso la strada. Voglio tornare a queste rocciose montagne come se fossero un esilio, per l'ultima volta. Non mi appartengono più; il legame si è spezzato quando ho scoperto cche la morte non ha bisogno di un posto particolare. Ci ritorno come un amante che dice addio alla donna che lo ha respinto" Dichiara Charef, che vive ed opera da vent'anni in Francia.

E proprio quest'autobiografica dichiarazione viene messa in scena da una ineccepibile Cylia Malki, che, nei panni della protagonista Rallia, ripropone il ritorno nel deserto del Maghreb alla ricerca di Keltoum, la madre che l'ha abbandonata in fasce. Bent Keltoum è, infatti, il lungo e faticoso viaggio della protagonista, quanto dello spettatore che percepisce sulla sua pelle, intolleranza, violenza, povertà. Un viaggio verso la scoperta e la verità tanto devastante dal punto di vista personale, quanto dal punto di vista sociale, politico ed economico.

Charef, il cui film non prevede ancora una distribuzione italiana, benché le sue precedenti opere annoverino presenze e riconoscimenti internazionali, utilizza il caldo cromatismo del paesaggio algerino per esprimere repressione sociale ed emotiva delle popolazioni della montagna. Ed anche in questo film l'elemento catartico è rappresentato dall'elemento vitale: l'acqua. Da ricercare, da scambiare, da offrire, da scoprire. Proprio come nel colpo di scena finale, che sconvolge Rallia nella scoperta dello scambio con la risorsa primaria. Ella è una ragazza di origini algerine, ma di cultura e substrato tipicamente europei, che ripercorre principi di vita indotti che si scontrano con lo spirito emulativo di un'immagine occidentale, fatta di riviste patinate e di belletti vietati nella regione maghrebina: la condizione della donna, che non può mostrare il capo scoperto ed il viso truccato, perché provoca l'uomo indigeno; la condizione di privazione e di altissimo spirito comunitario; il segreto di un sapere non condivisibile. Questi temi scuotono l'animo dello spettatore, che non può non percepire come Charef si sia autoesiliato dal suo paese. Per principio e per condizione.

Questi temi passano dall'utilizzo di primi piani strazianti nella rappresentazione del dolore intimo, alle visioni panoramiche di una montagna arida per affondare la camera nell'attesa, nell'aspettativa. Di risposte, di persone, di scoperte, che il colpo di scena finale, ambientato in un hotel per turisti dell'ultima ora, ci fa fermare a pensare quanto inutile sia ripercorrere il proprio passato per cercare di cambiare il presente.

Lo sguardo femminile di Yamina Bachir Chouikh, sceneggiatrice alla sua prima prova registica, ci mostra, invece, un Algeria molto più cruda. Il terrorismo descritto in 100' da Rachida, è una visione prettamente femminile delle limitazioni vitali. Dove la donna, per la regista, ha una funzione prettamente propositiva, di ribellione all'oppressione, ma, soprattutto, di resistenza: un viso femminile nascosto nella sua beltà è solo la proiezione di una ricostruzione. E la creatività nasce, cresce e prolifica nella sofferenza.

"Ho fatto questo film perché ero in collera e arrabbiata per questa forma di violenza sull'Algeria." La Bachir Chouikh, peraltro già in distribuzione italiana (il film è stato prodotto grazie a Canal+) e presente a Cannes nel 2002, in conferenza stampa ha dato un senso ai nostri sensi: Rachida è una buona prima prova dietro la camera, anche se non perfetta, ma le sue parole sono la migliore rappresentazione di un vissuto, che l'autrice ha percorso ed interiorizzato in patria, a differenza di Charef. "La prima reazione dell'uomo è la paura. Io ero in collera, provavo dolore. Quindi ho canalizzato la mia paura ed ho scritto questo film per parlare del quotidiano dell'Algeria. Ho deciso di prendere la parola e di raccontarci dalla nostra parte. Perché tutti parlano di noi, tranne noi. Io non mi vergogno della mia cultura, ma nella mia società c'è qualcosa che non mi piace. E lo denuncio. I terroristi sono i nostri ragazzi. E ne abbiamo paura. Io denuncio loro e tutti quelli che sono responsabili della tragedia dell'Algeria. Ho cercato di fare un film non locale, ma universale, perché la violenza è propria dell'umanità. E' stato un modo per resistere, non con le armi, ma con i comportamenti. Non è coraggio. E' arte di vivere. L'umanizzazione dei terroristi è stata dettata dal fatto che ho scelto di mostrare, senza giudizi, la realtà. E' la realtà è che la gente conosce personalmente i terroristi. Io mi sento prima cittadina, che regista. Quindi, non giudico, perdono. Il perdono è una cultura. E da noi si perdona per decreto." Il messaggio di Rachida, infatti, è proprio affidato alla lezione della protagonista, che cerca di portare i suoi studenti ad analizzare cosa succede. Non a giudicare.

Sebbene con tecniche un po' ingenue, la morale cinematografica di Bachir Chouikh giunge diretta ai nostri sollecitati sensi, proprio attraverso la sensibilità femminile. Quella della regista, quella della protagonista, quella delle figure che compongono questo quadro straziante, ma positivo e propositivo: "Il coraggio nasce dalla paura".