Le movenze del sogno sono ben manifeste per l'intero racconto di fate reso film dai colori slavati, non ben definiti, coi contorni poco netti di una fiaba come Le Petite Chaperon Rouge letta ai bambini nel treno, virandola sul racconto biblico; però la valenza onirica si assume da subito come piano del reale anche per l'intrecciarsi indissolubile con la tradizione ebraica conosciuta universalmente attraverso la pittura, direi Marc Chagall (ma perché non citare anche Rembrandt per quei ritratti iniziali sul consiglio dei saggi?), il teatro di Eugene Ionesco, la letteratura: evidenti gli echi da Elie Wiesel, Joseph Roth, Philippe Roth, David Tulman, Israël Zangwill, Saül Bellow, Stefan Zweig, Léo Perrutz, tutti citati da Radu Mihaileanu stesso, a cui aggiungerei Abraham Yeoshua e il Singer dell'esergo (il cui coro multiforme è simile al microcosmo brulicante di storie del film: la stessa incombenza di un destino ingannato temporaneamente dalla confusione beffarda di bene e male), la filosofia (Cioran),

al punto che l'itinerario, bislacco narrativamente e geograficamente improbabile, percorso dai due binari su cui scorre la favola ironica, ci appare credibile, nonostante si barcameni da un lato al limite dell'assurdo dei giochi linguistici tipici del divertimento yiddish e dall'altro nella puntuale descrizione dei reali meccanismi di un microcosmo, lasciato evolvere autonomamente; i pochi interventi per orientare il corso degli eventi sono lasciati al "matto" e alla fine si scoprirà anche il motivo del suo ruolo autoriale e anche della stravaganza delle soluzioni verbali, accettate dapprima semplicemente come tipica espressione del leggendario spirito ebraico.

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