Che dire poi di epistole con frasi geniali come "Mai di me vi feci carestia": quale amante non trarrebbe godimento all'occasione ch' un'amante gl�el scrivesse (e anche in questo caso si collega alla disponibilit� di Ginevra per Bresson). La ricostruzione tantalica di un mondo in splendida cancrena è accentuata dalla minuzia dei particolari e dalla precisione filologica anche degli inserti musicali (Diego Ortiz per viola da gamba, mentre appare fugacemente un pezzo di Stravinsky che testimonia della commistione di mondo antico e moderno anche nelle sonorità ed è geniale che prorompa proprio nel momento del ferimento del protagonista a scandire l'intuizione del rallenti). Dunque un'accezione nuova di guerra: universale eppure compendiata in un uomo, spinta dall'innovazione tecnologica. Rappresentata degnamente dalle mappe militari percorse dalla macchina da presa per introdurre ai luoghi padani (ricostruiti minuziosamente in Bulgaria) o dalla descrizione puntuale di un ponte di barche dai calcoli balistici su carta, con i progetti destinati a cambiare l'universo di relazioni e dunque anche i riferimenti iconografici sembrano trovare cittadinanza solo per essere archiviati come residui di passato (la stampa miniata del concerto con la filologia sull'abito cesellato di lei, il dettaglio delle due mani, il cane accarezzato tristemente): il languore del passaggio epocale a cui non ci si contrappone nemmeno più, un'onda che travolge tutto ciò di cui il regista fa un catalogo per ricordare il bello prodotto da un mondo in dissoluzione, minacciato dalla bocca del falconetto, incombente apertura di ogni sequenza, il cui vorace vuoto è pronto a fagocitare tutto.

Eppure il prete visionario disperato - copiato da un quadro di Lotto - annuncia con la voce del regista: "Non c'è bisogno delle vostre armi per sterminare il mondo. Non siete che ombre, vuoti simulacri" e nuovamente riecheggia quel Tibullo in esergo che spiega come le armi in sé non siano letali, è l'uso dell'uomo che le rende tali, l'autore dell'otium in contrapposizione alla vita militare; e di nuovo si torna a Bresson e a quel campo di armature inanimate e scintillanti, qui brunite per quei disperati assalti notturni per entrare negli incubi della modernità lasciando tracce del mondo di prima, frammenti ridotti a rovina scrutata nella notte da un carretto molto vicino a quello Dreyeriano di Vampyr, che se fosse oggetto di citazione (forse involontaria, perché presente nell'immaginario del regista) aderirebbe all'interpretazione del vampiro come retaggio del passato che non vuole sparire. Un carretto poi apostrofato da una sorta di Savonarola: «Siete in cerca dell'Inferno a quest'ora della notte? Questo è il tempo della bestia», forse attribuendo al demoniaco ogni epoca di transizione.