JUHASceneggiatura e regia: Aki Kaurismäki Soggetto: desunto dal romanzo omonimo di Juhani Aho (1911) Fotografia: Timo Salmnen Montaggio: Aki Kaurismäki Musica: Anssi Tikanmäki Scenografia: Markku Pätilä, Jukka Salmi Produzione: Aki Kaurismäki Distribuzione: Pyramid Formato: 35 mm. b/n muto Provenienza: Finlandia Anno: 1999 Durata: 78 min.
| CAST Sakari Kuosmanen .... Juha |
Inventare nuovi codici è prerogativa di pochi autori sensibili alla prosecuzione di sentieri interrotti, ovvero appannaggio di analisti del linguaggio che si ripromettono di rieditare tutti i fondamentali del mezzo usato in un’unica proposta, aggiungendo nuovi universali decrittabili da tutti, eppure originali e spesso ammantati di un’ironia nei confronti del patrimonio di segni comuni all’esperienza generale che scardina le certezze sulle proprie reali competenze nel controllo della comunicazione, ma perseguendo una comprensione universale offerta dall’apparente essenzialità del linguaggio, derivante dalla acquisizione di tecniche classiche. |
L’operazione filologica poi viene scardinata da ironici dettagli anacronistici sottolineati appositamente (come fece Jarman, inserendo camion e radioline nel suo Caravaggio): nessuna connotazione temporale avvallerebbe qualunque azzardo di collocazione, eppure trasaliamo a vedere il rasoio elettrico (che sentiamo funzionare), perché ci sembra fuori luogo a fianco del vecchio "putagé" (la stufa su cui tristemente, come un perdente di Murnau, si riscaldano le scatolette di cui si ciba Juha in un primissimo piano geniale che mantiene a fuoco la figura di Marja sullo sfondo), la radio dei tardi ‘50s si accompagna a credenze della stessa epoca, funzionaliste ma nel legno della tradizione scandinava; però la modalità di ripresa retrodata ogni sequenza della campagna. Invece i riferimenti relativi alle sequenze cittadine oscillano tra il Dreyer di Gertrud e il cinema esistenzialista degli anni’50 e dell’incomunicabilità; collocano la svolta del gusto cinematografico nei primi anni '60. |
Non a caso certi grigi slavati ricordano Bergman e Antonioni, perché qui invece sembra agevole aggiungere livelli comunicativi facilmente rilevabili con un semplice sguardo smarrito o orripilato; uno spot esalta la luminosità di un volto inserendolo nel tributo costante alle immagini-affezione con le quali non dimentica Stroheim, assorbendo talvolta luce dall’esterno, impara da Pabst a evidenziare i pensieri sui volti e grande al proposito è il tributo ad Ejzenstein, soprattutto per le repentine e cangianti espressioni dei visi su cui transitano sentimenti e interi racconti come i tipaz alle spalle di Juha in birreria dopo l’abbandono, pure il b/n di Bergman è rappresentato nelle sequenze di spegnimento dell’individuo, sospeso nel riflesso dei propri lineamenti; l’originalità sta nel fatto che il repertorio prevede nello stesso testo anche le trasparenze dei volti che emettono luce verso l’esterno come in Sternberg, affiancate dalle contorniture delle fisionomie dell’amato Griffith, altrettanto riflettenti dei primi piani del grande Pigmalione di Marlene, senza tralasciare la devozione iconofila di Bresson e Dreyer accomunati dalla luce spirituale estesa ai piani medi e ai campi/controcampi. Su tutto s'impongono i giochi tra luce e opacità dell’espressionismo à la Murnau, con il gorgo che trascina il personaggio in basso (Der Letzte Man) o lo fa risorgere in parallelo alla dose di chiaro e scuro (il finale di Faust, richiamato anche dagli alambicchi della distillazione della grappa). |
Anche sotto punti di vista diversi da quelli della illuminazione si nota uno studio del cinema mondiale precedente l’avvento del sonoro: le sequenze girate nei campi di verze sembrano provenire dal realismo Kolkoziano di Dovzenko, di cui il trattore, spesso ingombrante l’aia, è una scheggia apparentemente dimenticata in un angolo, ma posta in evidenza e rappresentativo di un certo "formalismo". Lo stesso regista indica nell’unione di Renoir e Buñuel la sequenza sul greto del torrente (la caduta nel vortice dei sensi è un omaggio a L’age d’or che rispetta lo spirito dell’originale muovendo al riso, pur mantenendo la sufficiente serietà per mantenere l'unità del film), ma altri echi dell’anarchico aragonese si colgono: esplicitamente, nel poster capovolto di Nazarin o implicitamente, nell'iconografia del prete che fuma il sigaro dopo il matrimonio di Marja, relegato nel flash back (prassi narrativa nel muto molto adottata, quindi qui con valenza filologica), onirico per apportare nuovi elementi di correlazione con il surrealista spagnolo; ma persino la congrega di puttane era presente nella vicenda del prete bunueliano e iconograficamente richiama quell'ambiente, nonostante l'arredo mantenga fede alla scelta di collocare nei tardi '50s lo spezzone del lenocinio e la scena del gioco di carte sia ripresa come la medesima situazione in Menschen am Sonntag. Il montaggio alternato mirato ad esaltare la scena del ricongiungimento è poi un classico da godersi in ogni più infinitesimale perfezione di stacco sui momenti topici di entrambe le situazioni, cadenzate da una scansione temporale impostata sul ciclo della natura e la decisione di intervenire coincide con l'avvento della primavera. È commovente l’attenzione al decor e l’uso di oggetti che già da soli introdurrebbero atmosfere cinematografiche e nostalgiche di quel mondo ingenuo. Purezza e innocenza del cinema delle origini (Giglio infranto è il riferimento principale di Aki) sono irripetibili, perciò rimane quello sguardo esterno ironico, che si appoggia sulle cose, accarezzando quella radio che non emette suoni dall’interno dell’inquadratura, ma è emissaria di musica e insofferenza per quel mondo, al quale appartengono altri oggetti, pure questi appartenenti alla tradizione cinematografica. Come la spider oggetto del male, a cui sono riservati tagli di inquadratura sghembi anche per esaltare il suo fascino seducente e il retrogusto sordido che si può associare al melodramma di Sirk (vista la marca della vettura). |
Cinema muto, solo silenzioso o sordo? Forse Aki propone una sorta di lys cinematografico, dove il gesto non si accompagna solamente al labiale, ma alla didascalia, fornendo un mondo di musica, che diventa sonoro prendendo vita dall’immagine di fisarmoniche a tutto schermo, come nel cinema del fronte popolare francese, e poi radio, orchestre, balli, fino ad arrivare all’unica parola sonora: la chanson de cerise, assimilabile all’unica emissione vocale dall’interno di La Febbre dell’oro chapliniana. Una canzone! Ennesimo scherzo di un burlone colto, che arriva al punto di sincronizzare una musica con le immagini, in modo che si avverta una nota connotabile come il segnale del microonde di cottura eseguita: un uso del commento musicale con compiti narrativi superiori a quelli meramente emotivi delle colonne sonore mute (di cui si mantiene genialmente traccia nei suoni quasi dodecafonici del risveglio dalla sbornia al momento della scoperta della fuga), che non sottolinea solamente l’esistenza del fuoricampo, ma si inserisce con ironia direttamente in scena, come facevano i rumori assurti al ruolo di personaggi nel cinema di Tati, la cui bici si trasforma in uno dei tanti sidecar che costellano la storia del cinema in bianco e nero (Im Lauf der Zeit l'ultimo); attento però alla lezione godardiana di "un solo e identico continuum sonoro". Il maestro della Nouvelle Vague viene citato con affetto anche per le sue dirompenti scritte onnipresenti nelle sue pellicole, in particolare quelle militanti: "Arrest this man" firmato Sam Fuller è direttamente ascrivibile a lui, essendo scritto sulla lavagna come i proclami del Godard ‘60s. |
Un segnale dell’accondiscendente rimpianto del regista finnico verso quelle immagini è dato dalla prima didascalia: "Sono felici come bambini" e i due personaggi, indubbiamente naïf, lo sono all'inizio del film (e pertanto del cinema) per semplici soddisfazioni naturali. Ed è questo aspetto che ci fa apprezzare di più il film, perché ci immedesimiamo in loro e disgiungiamo il piacere intellettuale di riconoscere riferimenti a opere che ci hanno soddisfatto da quello più immediato di apprezzare il mago delle inquadrature, montate al loro interno secondo gli insegnamenti dei maestri (il piatto, il mestolo, la zuppa restituiti da un’inquadratura che gioca sulla loro essenzialità per rendere esponenziale la sobria linearità del linguaggio), l'autore descrivendo i gesti domestici li connette, seguendo una strada verso l’individuazione della forma di rappresentazione della realtà più pura, quella che, anziché seguire il percorso dell’azzeramento di Kiarostami, si prefigura lo stesso risultato recuperando la grammatica elementare, ma integralmente: come se si volesse realizzare un sussidiario lussureggiante di esempi, veri paradigmi da sentire nella pelle per recuperare lo sguardo paradossalmente ingenuo, nonostante l’iniezione di repertori: è come ritrovarsi nella caverna di Platone e riconoscere gli universali nelle ombre che come in un diorama accelerato ci vengono proiettate riassumendo tutti i loro usi atavici per interpretare però un racconto compiuto con i caratteri di un palinsesto da animare con suggestioni volte a reinterpretare il repertorio saccheggiato; il risultato è unitario al punto che vengono ripresi i gesti e gli oggetti fungono da prolessi: l'enorme chiave inglese con cui si smontano cinque (?) pistoni è il succedaneo della donna nel letto dell'ubriaco; la sequenza della seduzione si riduce a due inquadrature: Shemeikka si leva gli occhiali e Marja accenna a drappeggiarsi in un foulard d'improbabile eleganza contadina, che non casualmente sarà oggetto di dono al ritorno. Ed il film è a sua volta l'ennesimo prototipo delle "storie", soprattutto attingendo dalla tradizione letteraria scandinava: Juha è stato portato sullo schermo nel ‘21 da Stiller e poi altre due volte: nel ‘36 da Nyrki Tapiovaara e vent’anni dopo da T.J. Särkkä. Un tuffo nel patrimonio cromosomico di inquadrature. Diventano dunque esponenziali i segnali che ci siamo addentrati nella pura narrazione. |
L'uso dell'inquadratura fissa consente di impressionare la retina con situazioni che rimangono nell'immaginario: i due dormienti lui a letto con la chiave inglese (che connota il personaggio) e lei sul pavimento, oppure davanti alla radio a rendere palpabile la tensione che aleggia con il fumo della sigaretta ostentatamente assaporata come sfida, o nel citato primo piano di Juha intento a ingozzarsi solitario con espressione buffissima (ma amara) e Marja alle spalle, l'accetta lorda di sangue dopo che la corretta filologia espressionista aveva mostrato la punizione solo nelle ombre giganteggianti sul muro. Tutte situazioni dove il prolungamento dell'inquadratura diventa quasi un fermo di fotogramma, confermando l'intenzione di voler imprimere la foto nel ricordo dello spettatore, come un quadro di cui è importante valutare i singoli dettagli. Di contro non mancano situazioni di altrettanta sottolineatura, ma derivanti dall'improvvisa accelerazione dell'azione, come nel caso della rivelazione dell'animo malvagio del lennone che schiaccia perfidamente una farfalla, simbolo di leggiadria ed alter ego dell'ingenua Marja; si tratta sempre di stilemi decantati nelle nostre coscienze imbevute di codici che risalgono al muto e che sarebbe opportuno nella filosofia del regista far riaffiorare. |
Didascalie e dissolvenze si richiamano vicendevolmente e creano una scansione del racconto cadenzata secondo ritmi diversi, che ci avvicinano all’Ur, a quella predisposizione a godere del racconto che doveva venire completato nelle sue parti per una definizione imprecisa, eppure affascinante come quella delle lanterne magiche. E contemporaneamente l'uso frequente della ripresa dal basso, con l'intento di segnalare un maleficio, di spaventare e di intimorire anche il pubblico (il dito minaccioso opposto al rifiuto di prostituirsi), fonde la filologia con il divertimento e l'ironia di un'operazione intelligente. |
FILMOGRAFIA
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