Ricorsività tra

cinema e società argentina
3º puntata

Il viaggio si intraprende a piedi e verso un orizzonte deserto - 'La fé del volcan', Ana Poliak, 2001
Bambini in ambasce - 'La fé del volcan', Ana Poliak, 2001

"Da piccolo abitavo in un quartiere popolare di Buenos Aires in cui c’erano sia rifugiati ebrei della II guerra mondiale, fuggiti da Parigi occupata dai nazisti, come aveva fatto mia madre, sia una comunità di SS, venuti a nascondersi dopo la liberazione. Quando fu arrestato Eichmann – uno dei loro – uccisero una giovane ebrea comunista, le incisero delle svastiche sul seno. Non sapevo ancora scrivere, ma di notte ho disegnato sui muri delle croci uncinate impiccate. Il giorno dopo, ero a passeggio con mio padre quando uno di quei nazisti (li riconoscevo dal modo elegante di vestirsi) ci squadra, poi corre a cancellare i miei disegni. Avevo paura, ma pensavo che papà mi avrebbe protetto. Invece mi ha invitato a rifare i disegni. Ho ubbidito, il nazista li ha cancellati di nuovo, poi è venuto verso di noi. E mio padre, il mio eroe, non ha reagito."
Miguel Benasayag, Alias 5 gennaio 2002 (si nota una particolare affinità con La fé do volcan).

1988, Jorge Coscia e Guillermo Saura dirigono un film dal titolo emblematico, Chorros, che significa "ladri". Sembra il prologo dello sfacelo del sistema liberista: si narrano i vari artifici – peraltro legalizzati da Berlusconi, stupito che tutti gli italiani non siano dediti come lui a operazioni off-shore – attraverso i quali si stornano fondi e si fanno sparire enormi somme di denaro. Ladri in guanti bianchi, rubagalline dell’alta finanza. Ma ben più che in Il portaborse di Lucchetti ricorre all’umorismo per sviluppare un’acida analisi del sistema bancario tramite un’interpretazione acida e talvolta rigorosa del genere noir: gli impiegati di una istituzione finanziaria scoprono che questa deve essere "svuotata" e fatta poi fallire e cercano vanamente di evitarlo.
1999, Sergio Bellotti realizza Tesoro mio. Un misto di luci pop e tristezze individuali regolano la vita di una filiale di una banca, dove i tradimenti reciproci appaiono inevitabili: la vita prosegue insozzata dalle ruberie che tutti perpetrano più o meno scopertamente, nessuno si indigna più o fa del sarcasmo: tutti sono ormai assuefatti dal mefitico sistema, ammorbati dalla prassi e dall’esempio che viene dall’alto. La distanza temporale tra i due film diventa misurabile anche in termini di intristimento, di incapacità di reazione e di cooptazione al sistema.
L’indignazione della società argentina contro i "mal bichos" si è evoluta in questo decennio come documentano queste due pellicole, che tanto sembrano avere in comune anche con la corruzione del sistema italiano neoliberista, innestato sul cancro craxiano. Non più vera indignazione, fino allo sfogo collettivo del dicembre 2001, non più sarcasmo, ma accettazione della china, logoramento silenzioso dei rapporti anche affettivi, consumo distratto di sesso e vita, in attesa del redde rationem.

Una situazione molto diffusa in questo periodo: sportello chiuso - 'Tesoro mio', Sergio Bellotti 1999 Sesso come estremo rifugio, fuga dall'insoddisfazione - 'Tesoro mio', Sergio Bellotti 1999 Sesso come noia e abitudine di una trasgressione non più tale - 'Tesoro mio', Sergio Bellotti 1999 Il momento della mazzetta: ognuno ha il suo prezzo - 'Tesoro mio', Sergio Bellotti 1999 Denaro, potere, bandiera... - 'Tesoro mio', Sergio Bellotti 1999
Perplessi - 'La fé del volcan', Ana Poliak, 2001 El Armario, Gustavo Corrado 1999 Pizza birra faso, Juan Bautista Stagnaro 1998

Il cinema argentino si è sempre mantenuto in grado di forgiare personaggi per nulla eroici che piano piano però prendono coscienza (si pensi solo alla immensa Norma Aleandro di La Historia Oficial, primo film argentino insignito del premio oscar) e, affrontando la vita dipanata sullo sfondo di quei paesaggi epocali senza venire nella maggior parte dei casi mutati – scalfiti forse, feriti sempre, ma spenti quasi mai: c’è sempre una speranza, anche se talvolta ultimamente è sempre più nascosta (La Fè del Volcan), o dietro alle spalle irrimediabilmente perduta (El Armario) – si propongono come possibili compagni di insurrezione (levantamiento popular) quando la misura sia colma. Un coacervo di personaggi tipicamente bonaerensi costella il cinema argentino, tanto che sembra voler sempre tributare un omaggio al Bestiario di Cortàzar: non è difficile immaginarsi nei suoi racconti i ragazzi di Pizza birra e faso, i due piccoli truffatori di Nueve reinas, gli artisti di El lado oscuro del corazon (di Eliseo Subirla, autore negli anni 80 di Hombre mirando al sudeste), l’intera famiglia di Un lugar en el mundo o gli attori di La nube,… ed è altrettanto facile vederli nelle immagini video di un cacerolazo, sognatori molto disillusi, come l’ingegnere di Una sombra ya pronto seras. Come probabilmente partecipano ai cacerolazos tutti gli avventori del caffè-ristorante porteño di Bolivia, presentato a Cannes 2001 (non credo che potremo mai assiderci in quei tavolini da una sala cinematografica italiana, anche se i locali della capitale sono quanto di più cinematografico si possa immaginare) dall’uruguayano Adrian Caetano – coautore di Pizza birra e faso –, dove si confondono le disperazioni del boliviano immigrato che lavora nel bar e le condizioni tragiche degli avventori. Una tragedia annunciata nel film, come quella dell’implosione del sistema neoliberista, ingiusto, feroce, assassino, autocratico, oligarchico per vocazione, ladro per necessità clientelare.

Nueve reinas, Fabiàn Bielinsky 2000

Caratteri intercambiabili dunque, come avviene in Silvia Prieto, dove le vite e le coppie si scambiano casualmente incrociandosi per le vie di Buenos Aires, componendo una crew solidale che si scambia regali e attraverso gli oggetti viene inserita in una rete di rapporti che conducono a riconoscersi come simili nella propria diversità; il retaggio ebreo di Pobre Mariposa che inserisce la figura tormentata di Clara Marino – famosa voce radiofonica (cosa che rende ancora più centrale l’importanza dell’individuo che prende coscienza, rispetto alla coscienza collettiva dei crimini perpetrati contro l’America australe) – in uno dei fenomeni del dopoguerra che vide la fuga in massa dei nazisti sul suolo argentino (di cui parla anche l’uruguayano Daniel Chavarria in Quell’anno a Madrid, Marco Tropea editore), attraverso l’indagine sulla morte del padre, che la conduce alla propria morte.

Pobre Mariposa, Raùl de la Torre 1986
Puenzo ha scavato, ancora in questo 2001 terribile, in quella piaga del rifugio per nazisti che è diventata l’Argentina nel dopoguerra (Bariloche assurta a città simbolo dell’occupazione nostalgica dei gerarchi come Priebke, come se la Patagonia dovesse sempre essere ricettacolo di vecchi arnesi dismessi), ma lo ha fatto attraverso il disagio di quelle che furono le vittime – ed ora sono carnefici – quando si ritrovarono vis a vis con gli aguzzini, entrando illegalmente, da clandestini, nella nazione che aveva accolto i soldi dei nazisti in fuga: l’autore di La Peste mostra quel contagio questa volta attraverso le testimonianze dei sopravissuti, quelli che si sono anche salvati dalla desaparecion dei neonazisti della giunta militare. Il film Algunos que vivieron, è un grido di dolore per la storia che l’Argentina si è trovata a sviluppare, per il ruolo che ha dovuto coprire nel paesaggio mondiale, che i protagonisti di queste testimonianze patiscono enormemente, nonostante si tratti per loro di una patria adottiva.
Stesso orizzonte di recupero del proprio universo, ma questa volta in seguito a un movimento di ritorno è quello di Rey (di nuovo il retaggio del Volver), l’eroe di Carlos Olguin in A dos aguas, che rientra in Argentina proprio nel 1976, quando muore il padre e la dittatura si va a instaurare; in questo caso però l’attraversamento della storia collettiva, operato attraverso un personaggio seguito con particolare interesse, comprende svariati traumi della storia ufficiale: infatti trascorre il proceso militar e lui ritrova una compagna di università la vigilia di natale del 1983, quando Rey, scopertosi omosessuale, sta per cominciare il suo primo film. L’incontro gli riporta alla memoria gli anni in cui era innamorato di Isabel e questo mette in moto un’analisi a ritroso di se stesso che lo rappacifica con la storia, sua e del suo paese.
Stereotipi si diceva, serie di personaggi non ingessati nel loro riprodurre una categoria, ma vitali e sempre diversi. Anche quando si appalesano in un blando metacinema come quello di Olguin, o quale si presenta nell’epica storia di Oreille Antoine inserita nelle disavventure del regista David Vass che sta tentando di raccontarla in La pelicula del Rey di Carlos Sorin, che si abbandona a visioni tipicamente della sua cultura utilizzando la struttura del cinema wendersiano per seguire gli spostamenti di Vass e quello desunto da Fitzcarraldo o Aguirre per gli atteggiamenti del Rey. Più vicino al gusto contemporaneo è l’uso del film nel film di Solanas, o ancora più ricercato in quello di Agresti.
La peste, Luis Puenzo 1992 A dos aguas, Carlos Olguin 1987

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Adriano Boano