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JAPÓN

La raffinata cinefilia di Carlos Reygadas

regia e sceneggiatura: Carlos Reygadas
fotografia: Diego Martinez Vignatti (supercinemascope con lenti anamorfiche 2:35:1 montate su cinepresa a 16 mm, pellicola poi gonfiata a 35 mm
montaggio: Daniel Melguizo
direzione artistica: Alejandro Reygadas
musica: Dimitri Shostakovich, Arvo Part, J. S. Bach
suono: Gilles Laurent, Ramon Moriera
personaggi e interpreti:
El Hombre: Alejandro Ferretis
Ascension: Magdalena Flores
El Cazador: Martin Serrano
produzione: No Dream Cinema, The Hubert Bals Fund, e Mantarraya Producciones
Messico, 2004
durata: 143 minuti

 


Potrebbe soddisfare il palato dei soli cinefili, eppure... l'accompagnamento di una macchina da presa claudicante, come l'incedere del protagonista di Japón, riserva altre pieghe all'interno dei fotogrammi, presso le quali riparare per dar senso alle visioni. Del tutto soggettive quelle del personaggio principale, persino monotone nella sua insistente e ossessiva perlustrazione di anfratti naturali, che lo scenario desertico dell'Hidalgo messicano non deve certo industriarsi di inventare, eppure... così condivisibili nell'azzerare un immaginario malato, per aprirlo finalmente a un'occasione di buon cinema, dove il citazionismo, seppur imperante, si trasforma in cifra stilistica originale, in quanto capace di aderire all'humus di una civiltà primigenia, come quella dei meticci messi in scena. Il regista però afferma di aver preparato persino un découpage tecnico, numerando le inquadrature e assegnando a ciascuna di esse il nome di un cineasta: "inquadratura Malle": quando l'uomo punta un revolver, con la stessa ripresa e la stessa arma di Fuoco fatuo; "inquadratura Tarkovskij": quando la donna anziana parte con il camion, è un omaggio a una scena di Stalker; "inquadratura Sokurov": e se l'uomo resta, per oltre un minuto e mezzo, seduto pensoso o arranca sui sentieri con la vecchia il ricordo va alle stesse sfocature slavate di Madre e figlio, che ritorna nell'intimità degli interni... e si potrebbe continuare, ognuno aggiungendo quant'altro va a riconoscere nel suo palinsesto cinefiliaco.

Lo spettatore conserva memoria della citazione, poiché palesi sono i riferimenti iconografici, ma l'assapora senza la preoccupazione di repertoriarla in un universo conosciuto, perché ben si adatta al contesto ricreato. La realizzazione del doppio risveglia l'eco della fonte e permette di comprendere anche i motivi che rendono azzeccata la rievocazione, ma diventa a sua volta originale: insolita rappresentazione di un paesaggio, del suo modo di guardarlo e di allacciare contatti con gli elementi che lo popolano, siano essi agenti atmosferici (la pioggia, il vento, la foschia...) o esseri viventi (le piante, gli animali, gli abitanti del villaggio...).
Il film mette in scena all'inizio un road-movie, senza spiegare le ragioni per cui il protagonista decide di intraprendere un viaggio, lasciando la civiltà e il resto del mondo alle sue spalle: l'uomo appare sofferente, segnato nel fisico, anche per via dell'anomalia rimarcata dal suo spostarsi, sorreggendosi a un bastone. Egli porta con sé pochi oggetti: una pistola nella tasca del giubbotto (che svolge la funzione della fatidica pars pro toto, cara al cinema sovietico classico che il regista preferisce), dallo zainetto spuntano un catalogo d'arte e un mangiacassette, dotato di auricolari, che ogni tanto inforca per rompere il silenzio del film, permettendo anche allo spettatore di ascoltare le sue predilezioni musicali: il Concerto n°15 di Shostakovic, la Passione secondo Matteo di Bach e una cantata di Britten dedicata a Bach.

La presenza dell'arma e una battuta fatta al cacciatore che gli darà un passaggio, curioso di sapere perché voglia finire in quel paese sperduto ("A matarme" è la laconica risposta), sono gli unici indizi che consentono di prefigurare un dramma, che resta appiccicato al suo vagabondare, apparentemente senza una meta precisa, trasformando il suicidio in una sorta di fantasmatico compagno di viaggio. Permane comunque la sensazione che lo voglia in realtà accompagnare a "riveder" la luce fuori dal tunnel, come anticipato nella sequenza iniziale, prolettica e profetica al contempo, perché restituisce una presa di coscienza attraverso l'unico materiale che un cineasta ha a disposizione: la grana dell'immagine e la maniera di fotografarla, esponendola, sfocandola, cancellando certi colori per restituirne altri, che solo l'occhio della macchina da presa può intercettare.
La pellicola si sviluppa a partire da un'inquadratura di automobili incolonnate all'interno di un tunnel, fiocamente illuminato da neon con dominanti rossastre che contaminano l'atmosfera, rendendola stranamente malsana (come la zona morta dello Stalker), al termine del quale si individua un pertugio, che va man mano a occupare lo schermo, per lasciar spazio a una luce diffusa, un improvviso bagliore irreale, che sparisce repentinamente per confondersi con l'asfalto di tangenziali urbane (inquadrate di notte come fossero immagini televisive provenienti dalla guerra del Golfo a cui si alterna la linea di mezzeria di Lost Highway), che si trasformano, con lo scorrere della vettura, in carrozzabili meno frequentate e stradine sconnesse, che fanno venire in mente quella percorsa da Cary Grant in Intrigo Internazionale, inseguito dall'aereo in mezzo ai campi. Anche lì al termine della sequenza si trovava una via d'uscita (come per tutto il film nella analisi di Bellour, che vedeva la possibilità di salvezza del protagonista nella sua capacità di prendere nei tempi giusti i mezzi di trasporto che gli passano accanto... fino al treno che stantuffa nel tunnel sulla parola fine in una chiara allusione sessuale).
["Percorro un tunnel dalle pareti fosforescenti. Precipito verso un punto lontano, che mi appare di un grigio invitante. È l'esperienza della morte? Da quanto si sa, chi l'ha provata e poi è tornato indietro, racconta esattamente il contrario, si passa per un condotto oscuro e vertiginoso, e si sfocia in un trionfo di luce accecante", Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, Milano 2004, pag. 299].


Nel passaggio dalla notte al dì e dalla città alla campagna si consuma, attraverso la soggettiva del protagonista, una gamma di colori, per terminare il viaggio con un'inquadratura in bianco e nero, dove tutto diventa ancora una volta e sempre più lattiginoso e sfocato, avvolto persino da una nebbia persistente. Raggiunto il deserto, il viaggiatore scende dall'auto, il suo sguardo vagola avanti e indietro, famelico di perlustrare il terreno, al punto tale che l'osservazione delle zolle viene eseguita con un movimento centrifugo in grado di trasformarle in macchie cromatiche, degne di apparire su un quadro di Pollock (in particolare la mente ripesca il ricordo della visione dell'intrico gestuale di Number 26A della serie del 1948 "Black and White", 248 x 121,7). Solo a questo punto la soggettiva lascia il posto alla figura intera del personaggio, che cammina zoppicando tra i cactus, poi lo inquadra di dietro e di profilo, per concentrarsi ancora su quello che sta guardando, ma la sua attenzione viene disturbata da una voce: un giovane, che sembra materializzarsi dal nulla e potrebbe addirittura essere scambiato per se stesso bambino, quasi si stesse assistendo a un flashback (o a un film di Sergio Leone, piuttosto che a L'infanzia di Ivan), lo invita ad avvicinarsi per tendergli un uccello ferito, ormai privo di forza per volare. L'uomo si fa consegnare il pennuto e con gesto reciso lo decapita; la testa mozzata agonizza a lungo sul terreno, che perde man mano i suoi colori per diventare smorto e slavato: contenente e contenuto si fondono nell'inquadratura, che denuncia immediatamente i suoi riferimenti visivi, alludendo al film Il sacrificio di Tarkovskij, mantenuti desti anche nella scena successiva, quando il bambino e l'adulto vengono ripresi in campo lungo e in posa statuaria sotto un albero, mentre contemplano il panorama, poi l'uomo spiuma e spenna l'uccello e lo riconsegna al piccolo, trasformandolo in un bottino di caccia pronto per essere cucinato







L'attraversamento del canyon viene mostrato a bordo di un fuoristrada, zeppo di cacciatori zoticoni, mentre il protagonista si isola nell'ascolto della musica diffusa dalle cuffie e il paesaggio scorre attraverso vetri sporchi e umidi di pioggia, per essere poi ripreso dall'alto, lungo una strada a tornanti, che ricorda le tante percorse da Kiarostami nei suoi pellegrinaggi visivi.
Ospitato per la notte presso la carniceria Los Cuates, l'uomo si risveglia al suono di grida lancinanti, che solo un maiale può emettere quando viene salassato: scosta le tende della stanza e tutto gli appare sfocato, finché riesce a mettere a fuoco il rosso delle gocce di sangue che macchiano il terreno sotto una tettoia, tagliata come solo Burri (prima di Carlos Reygadas) sapeva fare con le lamiere che incidevano le sue opere d'arte. Nel retro della macelleria egli passa in rassegna una serie di carcasse, le accarezza con lo sguardo e con la mano, poi si sofferma su una testa di bue, degno di comparire su una tavola di Dalì, per immergere le dita in alcune interiora, proprio nel momento in cui la sua immagine viene a comporsi su uno specchio sporco e dal cristallo offuscato, che rende il suo simulacro ancora più molle e inconsistente di quanto va tastando. Gli oggetti consumati, ormai abbandonati senza alcuna cura da parte dei viventi, e i resti degli animali appesi dopo la macellazione lasciano presagire una progressiva discesa verso l'incontrovertibile destino mortale, a cui il personaggio cerca di abituarsi, cercando soprattutto conferme all'esterno, forse per convincere se stesso della bontà del gesto che si prepara a compiere o per mettere lo spettatore nelle condizioni di comprenderne la legittimità, pur tenendolo all'oscuro del movente.
Finalmente l'uomo si mette in marcia per raggiungere a piedi il pueblo vicino a San Bartolo, dove era stato ospitato, e la macchina da presa ne segue l'incedere claudicante, talvolta dall'alto in riprese monocromatiche (che esprimono una nostalgia per la fotografia delle pellicole di Ozu), più spesso coincidendo con il suo sguardo, perso in dissolvenze tra gli alberi dalle foglie secche, i colori del cielo e il bianco sporco marroncino del terreno arido. Intercetta un altro giovane, rannicchiato in un incavo di un albero, intento a tirare sassi con una fionda, poi fa conoscenza con il giudice del villaggio, che si spertica in un salamelecco divertente (sempre inquadrato in primo piano, mentre una voce rimasta fuori campo lo interrompe in continuazione per ricordargli che deve occuparsi di pomodori), per convincerlo a restare perché quello è uno dei paesi migliori del mondo e per di più è pieno di bambini!



Dopo aver controllato la sua carta d'identità, l'alcalde decide di mandarlo da Asen (diminutivo di Asencion e non di Asuncion: la seconda è quella di Maria verso il cielo, fatta con l'aiuto degli angeli, la prima è quella di Cristo eseguita senza intercessione alcuna), un'anziana vedova, che abita una vecchia e misera casa di pietre sulle alture che dominano il villaggio, completamente autonoma.
A un'altra donna, che giunge ingrembiulata e con un'espressione severa e compunta, viene affidato il compito di accompagnarlo lungo il cammino e la salita sdrucciolevole riserva altre sorprese visive: le rocce si sgretolano al passaggio, la fotografia sviluppa nuovi stratagemmi visivi, illustrando ora la massa desertica messa a nudo sparando sul bianco, talvolta lo scenario globale, sul quale spiccano solo i toni verde oliva spenti del fogliame, che risvegliano l'eco di alcuni fotogrammi cari alla maniera di riprendere di Straub e Huillet, avvezzi a movimenti circolari di perlustrazione di un paesaggio, che parte da un punto e si ricongiunge dopo 360 gradi a quel medesimo, che qui ha senso evocare in quanto metaforici di una presa di coscienza di quanto il personaggio va osservando. Asen mostra un volto che è un compendio di geografia umana: occhi con la plica mongolica, già intercettati in altre pellicole nipponiche, rughe indigene dalla geometria azteca, innestate sopra un viso mestizo, che sa aprirsi a un sorriso che irradia la saggezza di tutti gli anziani dell'universo, disponibili a far spazio all'altro da sé, seppur straniero e alieno, accolto con l'umiltà fideista di chi crede che il diverso, arrivato da lontano e da chissà dove, sia in realtà un essere messianico da ospitare, nonostante sia poco qual che ha da offrire, e al contempo proteggere da quel che gli pare di intuire dietro al riserbo e alla discrezione del nuovo inquilino.
La vecchia accetta di dargli riparo presso un fienile, che è la fotocopia architettonica della "stanza" già vista nello Stalker, dove il protagonista può stendersi a riposare, mentre il suo sguardo percorre le travi di legno che reggono il soffitto, attraverso slittamenti percettivi che partono da lui per terminare a comprenderlo e congelarlo in quello scenario, degno rifugio di chi sta cercando il posto giusto e il momento opportuno per mettere fine a una vita e alle eventuali sofferenze che viene naturale presagire, siglate poco oltre dal rito di Asen, intenta a officiare alle sue preghiere quotidiane di fronte a un altarino domestico, popolato di icone del Cristo: quello pellegrino, quello crocifisso, quell'altro ancora evangelico dal cuore grande, capace di consolare le miserie e i travagli dell'umanità derelitta che abita il mondo dei vinti, a cui l'anziana porge labbra ormai sfiorite per baciarne una semplice icona votiva. Penserà lei, d'ora in poi, a pregare per quel viandante che si è rifugiato nella sua casa, il quale, nel frattempo, si accorge invece di essere sedotto proprio dalla dedizione gestuale di Asen nei confronti di un'immagine, che rimanda a un'entità umana e metafisica al contempo. Spogliando quel bacio dalla religiosità morbosa e superstiziosa che apparentemente sembra rimarcare, l'analisi del gesto compiuto dalla vecchia e la contemplazione della sua veste di seta bianca, su cui luccicano morbide foglie ricamate, che si sollevano all'ansimare del petto, uniti ai racconti di santini di vergini di Guadalupe che suscitano desideri sessuali da parte dei maschi di quei luoghi, stimolano la fantasia del protagonista al punto di invitarlo a masturbarsi, sognando una giovane donna, che scorga dalle acque come una novella venere e avanza su una spiaggia per congiungersi in un casto bacio con Asen, che sporge le sue labbra, offrendole come capita di fare durante il rito della comunione.

Le giornate al pueblo sembrano scorrere tranquille: l'uomo acquisisce la voglia di prendere con sé alcuni attrezzi, che si direbbero comuni al suo mestiere (un foglio di carta, colori e pennelli), per dedicarsi a un'attività oziosa durante le sue passeggiate: impiastriccia un foglio di grigi, bianchi e neri a olio, per poi dilettarsi a colarvi sopra un torrentello, prossimo a tracimare, fuoriuscito da un tubetto rosso (la mente va sempre a Pollock, naturalmente). Tutti i ragazzi del villaggio si radunano intorno a lui, incuriositi: uno trova persino il coraggio di farsi avanti per farsi regalare l'opera, che gli viene donata senza problema, a condizione di alimentare la processione che si accinge ad assistere, cullato dalla musica che gli giunge attraverso le cuffie: una pletora di fanciulli e fanciulle appaiono alla sinistra del suo campo visivo, trascorrono davanti a lui, si soffermano a guardarlo o a scrutare l'occhio dell'obiettivo, poi avanzano fino a scomparire, per lasciar spazio a una coppia di anziani che provengono da destra, lo raggiungono e, salutandolo, prendono sentieri diversi: l'uno inforca il pendio, l'altra si immerge nel campo e diventa sempre più piccola, mentre si china a lavorare. La costruzione delle traiettorie spaziali che uno sguardo può comprendere, restando seduto immobile a scrutare una porzione di campo visivo, risulta magistrale in questa sequenza, che ha il pregio di testimoniare una diversa maniera di affrontare l'attraversamento di un territorio: i giovani provengono numerosi da una parte, i pochi anziani dall'altra, l'incontro generazionale in qualche modo avviene, anche se non documentato nel registro percettivo dell'osservatore, che deve attendere le sequenze successive per capire che in quel luogo vigono legami molto semplici che regolano l'appartenenza a una comunità, come il bere il pulque (il distillato dall'agave consumato in enormi quantità come dissetante a bassa gradazione tra i messicani, che però a lungo andare, dopo qualche caraffa si abbattono puntualmente sui tavolini di qualche pulqueria con l'ingresso a saloon; per i più poveri è un alimento nutriente, somministrato anche ai bambini) da una tanica condivisa o officiare al rito della messa, pur sapendo di aver offerto a uno straniero il piacere di soddisfare gli appetiti della carne in un'unione di amore libero, che mal contrasta con i doveri coniugali sanciti da santa madre chiesa. Ma procediamo con ordine o meglio con le lenti visive adottate dal regista: Asen, rassettando il fienile, dove ormai vive il suo stravagante fittavolo, scova l'arma nella tasca del giubbotto, si impensierisce, ma decide di non lasciar tracce della sua scoperta, mentre si perita di far sapere che ha però ficcanasato nel catalogo riposto nello zainetto, per fargli scoprire, tra una tirata e l'altra di marijuana, che accetta di assaporare sia l'erba, che le opere repertoriate, preferendone in particolare una: la tela bianca evidenzia alcune deboli trafitture, degne senz'altro dei famosi tagli alla maniera di Fontana, ma forse i rimandi iconografici dell'anziana (stavolta vestita con un abito a righe bianche e nere con disegni di cerbiatti qua e là) vanno a sedimentarsi in altre ferite al costato ancora più note, esplicitando la sua capacità di intuire quel segreto che l'uomo va gelosamente coltivando nel suo animo e contemporaneamente farlo partecipe della sua passione per le immagini cattoliche (già in precedenza l'aspirante suicida aveva passato la pistola sul costato, forse suggestionato dalle icone cristologiche). Nel frattempo, grazie anche all'onirica visione scatenata dalla masturbazione, influenzata persino dal contatto della fredda canna della pistola con il suo dorso convulso per l'ardore dell'impulso sessuale latente, l'uomo desiste dall'impresa, accetta il pranzo frugale che la vecchia gli prepara, si agita al pensiero che i parenti stiano per privarla delle pietre che formano il fienile, desiderosi di trasportarle altrove per edificare un'altra costruzione, si lascia prendere le mani per farsi auscultare il battito cardiaco, si sofferma ad accarezzare con lo sguardo il sedere di Asen, mentre si china intenta a cercare una caffettiera, infine si lancia in una corsa sperticata verso le rocce, mentre un cielo plumbeo minaccia fulmini e saette. La fuga claudicante si interrompe bruscamente a causa di una caduta: il sangue di una ferita segna il terreno, mescolandosi a primi goccioloni, mentre un insetto (forse uno scarafaggio) resta inebetito a guardare. L'uomo si rialza e procede verso un'altura, dove incontra un cavallo morto, disteso con le interiora di fuori (qui persino Picasso avrebbe provato piacere): si sporge verso un precipizio, estrae la pistola e se la punta alle tempie, poi desiste, e si stende sfinito presso l'animale. Il campo di ripresa si allarga a contemplare il panorama in un piano sequenza vertiginoso, che contiene in sé i prodromi stilistici che daranno forza visiva alla straordinaria sequenza finale, poi prende il sopravvento la musica e un lungo fotogramma bianco, dopo il quale si direbbe che nulla sia più come prima e anche il suo modo di guardare il paesaggio sia mutato.
La sua vista infatti gli restituisce colori normali: egli cerca disperatamente di sfocarli attraverso un'ubriacatura di mezcal (la tequila più forte, quella con il verme affogato nella bottiglia), ma il suo desiderio di alterare la percezione del mondo svanisce, lasciandolo in preda a istinti rabbiosi, che cerca di sfogare, cercando liti con gli altri avventori sbronzi, che popolano il desolato "Lupita", dove la cerveza es corona. L'atmosfera che domina la scena della ciucca, con conseguente rottura della radio per mettere a tacere la fuoriuscita di fastidiosi motivetti popolari, le espressioni ebeti e i movimenti degli indigeni in quel brancolare senza senso, intorpidito dall'alcol, la morbosità nel soffermarsi sulle mani atrofizzate di un invalido, intento a concupire una donna, rubandole baci, senza poterla abbracciare o stringere a sé, sembrano un atto di amore nei confronti di quella maniera di affrescare l'umanità derelitta, che solo Buñuel aveva già sperimentato nei suoi film, in particolare quelli del periodo messicano, che all'inizio risentivano ancora della esperienza surrealista.
L'atto sessuale dei cavalli, ruvido e tenero al contempo, anticipa e fa montare il desiderio dell'uomo nei confronti dell'anziana Asen, a cui finalmente riesce a chiedere di fare all'amore, dopo averle fatto ascoltare la sua musica attraverso le cuffie e soprattutto averle raccontato le vere ragioni per cui ha scelto di raggiungere quel posto:
- Perché è venuto in questo paese?
- Per stare tranquillo
- Già... in città ci sono molti problemi
- Sì, e poi serve serenità per lasciare le cose di cui non abbiamo bisogno... e poi ci sono cose che non si possono riparare
- Sì, credo di capire, ragazzo
- Occorre serenità per prendere la decisione di buttare via le cose. Stando qui mi si sono risvegliati gli istinti e gli impulsi e mi piacerebbe avere un rapporto con lei. Poi domani me ne andrò, definitivamente
- Ma non avere fretta di andartene...

Il dialogo con la vecchia è molto commovente e sincero, il regista ricorre nuovamente all'uso della sfocatura, ma lo fa stavolta alla maniera di Sokurov, che nel film Madre e figlio finiva con il creare una sorta di bolla irreale e ovattata, nella quale racchiudere e preservare l'intimità instaurata tra i due personaggi. Qui funziona alla stessa maniera forse perché l'affresco riguarda sempre un atto d'amore nei confronti dell'altro da sé, nonostante il rapporto sessuale non venga consumato fino in fondo e l'uomo si limiti dapprima a contemplare il corpo della vecchia, dopo averlo disposto in una posizione per lui erotica, forse perché evocativa di qualche immagine muliebre già vista nella vita o nell'arte, in seguito a cercare inutilmente di penetrarla, per poi risolversi in un lungo pianto liberatorio, consolato dalle timide carezze di Asen, che si è offerta a lui con la stessa compassionevole cura e dedizione provate da Maria Maddalena nei confronti di Cristo. La tenerezza e la capacità di comprendere quanto stia provando l'uomo che le ha fatto quell'insolita richiesta, illuminano gli occhi dell'anziana donna, ripresi a lungo in primissimo piano, mentre il rumore di sorde picconate provenienti dall'esterno mette fine a quel magico incantesimo: i parenti, aiutati da altri abitanti del pueblo, stanno iniziando a demolire il fienile, che ha ospitato il loro amplesso. L'uomo interviene a difendere la proprietà dell'anziana, espropriata prima del tempo di quanto era suo diritto mantenere, ma viene allontanato e isolato in quanto straniero, mentre persino Asen si rassegna e accetta di venir derubata dei suoi massi, consegnando con le sue mani anche l'ultima pietra trascurata dai demolitori, dopo aver provveduto a ubriacarli a dovere. Solo quando la vediamo uscire di casa con addosso il giubbotto dell'uomo ("L'ho messo perché fa freddo. Torno subito"), il suo piano ingegnoso viene messo a nudo: la donna sale sul trattore insieme ai sassi, sottraendo non solo se stessa alla vista dell'uomo, ma anche la sua arma. Lo spettatore ha invece la fortuna di vederla ancora, di spalle seduta sul veicolo, mentre il paesaggio, ripreso in assoluto silenzio, scorre al ritmo della traversata che trasportava i personaggi dello Stalker verso la "Zona", lasciando presagire l'incontro con un'altra ferrovia, che forse conduce nel medesimo luogo, ricordando le riprese in campo lunghissimo di Sharuna Barthàs, solcate da minuscoli treni in lontananza: la dolcezza del panorama è uguale. L'uomo resta da solo accanto all'altarino di casa, mentre gocce di pioggia gli rigano il volto e un rapido topolino cerca rifugio nelle fessure delle travi del soffitto. Sarà la stessa accompagnatrice dell'andata, stavolta il grembiule è stato sostituito da un abito nero e da un velo, altrettanto funereo, che le copre il volto, ad andare da lui in veste di prefica, per comunicargli la triste notizia attraverso un gesto più eloquente di tante parole: un abbraccio li cinge e anche la macchina da presa li abbandona, avvinti in quella stretta disperata, per spostarsi altrove, sul luogo dell'incidente, dove esplorare attraverso movimenti frenetici e circolari quel che resta del trattore e dei suoi occupanti.
La musica si diffonde senza ricorrere alle cuffie, cadenza le riprese, fruga il terreno per soffermarsi ora sui corpi degli autoctoni, ora sui massi rovesciati in mezzo ai campi: il piano sequenza (tarkovskijano all'estremo, paragonabile a quello del finale di Nostalghia, ma più ritmato sui tempi accelerati e avvincente) assume un ritmo ancora più concitato, accelerando sulle traversine dei binari, fino a concludere la sua corsa sul volto insanguinato di Asen, di cui si scopre un impercettibile movimento di una palpebra. Chissà quale ruolo ha svolto Asen nel prodursi dell'incidente?
... e fu così che il protagonista non si suicidò di fatto, ma solo simbolicamente: uccidendo man mano il suo modo di guardare il mondo, egli acquisterà una nuova vista, donatagli dall'anziana e dal suo coraggioso regalo, che presuppone la capacità di sostituirsi a lei per continuare a vivere e a contemplare quello scenario.

Paola Tarino

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