Fin da subito il nostro sguardo si sovrappone a quello di Schlomo, qui dichiarato matto, ma il suo nome è molto simile alla maschera yiddish, che nella cultura askenazita rappresenta lo spirito autoironico: l'ebreo rassegnato alla persecuzione, conscio di una sua diversità, che osserva la propria condizione con distacco ed il popolo eletto con sguardo critico, ma pieno di commiserazione per se stesso piange autoindulgente sulla propria sorte; questa figura di eterno sconfitto molto presente nella tradizione yiddish risolve i propri innumerevoli drammi rinchiudendosi nel suo più intimo immaginario, costruito su misura in modo che entrino solo velati echi della atroce realtà. Un'osservazione di se stessi distaccata, che aggiunge motivazioni all'impianto narrativo del film. E d'altra parte saremmo avvertiti fin da subito della natura del racconto, perché la prima battuta del film è: "Fuggivo correndo come si potesse fuggire da ciò che si è già visto", eppure l'assunto del film si conclude proprio nella possibilità di trasfigurare quel che si è già visto.