Ho lavorato sulle immagini attraverso il trattamento in rilievo della gelatina. Ho sviluppato le immagini come lineari, poi le ho trattate con i sali che normalmente vengono lavati via dopo lo sviluppo, per ricoprirle, strato dopo strato, di sostanze dissecate. Su di esse ho inciso segni grafici e disegni.
biofilmografia di Jürgen Reble

JÜRGEN REBLE

Alchimia del cinema

"The basic idea is that it is impossible to fix film. Film is something which is always in a state of flux... The images, "real" in the beginning,gradually disintegrate and the gelatine layer -- where the chemicals are embedded -- dissolves. All that's left in the end is the 'raging of the elements'."

Jürgen Reble

Pour Reble, la diffusion via les médias traditionnels (comme le cinéma) amène une lente disparition de l'œuvre, liée à la dégradation du médium. Eux utilisent la dégradation comme un mode d'expression ponctuel. Et le principal intérêt de cette performance fascinante, justement, était son aspect éphémère: le procédé chimique utilisé pour créer la couleur rouge, par exemple, est instable et ne peut exister que temporairement. La chaleur du Media Lounge, peu aéré, influait aussi sur les réactions chimiques, faisant d'Alchemie un événement unique, qui ne pourra jamais être réédité tel quel.

 

- Immagini come sfondo in movimento costituito da sindoni di forme consunte. Arrivare alla definizione di un'immagine è sempre più una questione di strutture e colori provenienti dalla materia grezza

"Uno dei primi filoni di ricerca nei quali si inserisce il suo lavoro è il cosidetto found footage, letteralmente 'pellicola trovata', termine derivato dall'object trouvé surrealista, e con il quale ci si riferisce a opere realizzate a partire da materiale preesistente di diversa provenienza, sia in pellicola che in video, rielaborato secondo un'ampia gamma di procedimenti e finalità artistiche. Soprattutto i primi film di Reble, quelli prodotti con il gruppo Schmelzdahin, presentano evidenti caratteri comuni a questo genere di lavori, principalmente l'utilizzo di diverse tecniche di montaggio volte a smantellare la narrazione tipica di un cinema inteso come rappresentazione naturalistica della realtà. Non a caso è questo il gruppo di opere nelle quali Reble fa maggiormente ricorso a frammenti di film di finzione o tenta di costruire forme di narrazione alternative come in Der General (1987). L'originalità di questa sua prima fase potrebbe essere espressa sottolineando come questi film non siano soltanto pellicole 'trovate', ma anche 'abbandonate': all'azione degli agenti batterici, come nel caso di Staadt in Flammen (1984), nato da un vecchio B-movie sotterrato per sei mesi nel giardino di Reble; delle alghe , che si depositano su un film a soggetto mitologico lasciato per un anno in uno stagno, dando vita ad Aus den Algen (1986); o ancora degli agenti atmosferici, come avviene ai tanti spezzoni di pellicola appesi per anni agli alberi dello stesso giardino, fra i quali Zillertal, un vecchio trailer che verrà prima usato per una performance e successivamente stampato come film nel 1997. Le modificazioni manifestate da queste pellicole 'ritrovate' vengono integrate in questi film con il lavoro di montaggio e costituiscono la base di partenza di quel lavoro sull'emulsione che verrà sviluppato nelle opere successive.

Passion (1989), il primo film firmato individualmente, nasce come tentativo di una personale rappresentazione della natura e come diario della nascita e crescita del suo primo figlio, le cui riprese sono montate cronologicamente a ritroso per finire con le immagini del parto e di una sorta di rito di couvage compiuto dall'autore che termina con l'apertura di un riquadro su una parte, uno schermo buio sul quale egli si affaccia e attraversa.

In Instabile Materie (1995) suono e immagini sembrano invece procedere uniti. L'immagine ha perso qui ogni aspetto rappresentativo e figurativo e si dipana come il flusso continuo di una superficie di colore a tutto schermo, interrotto regolarmente da lunghe pause di buio, come se le didascalie usate in alcune opere precedenti si fossero ammutolite, e dall'emergere a tratti delle forme, più o meno riconoscibili, di alcuni oggetti originariamente impressi sulla pellicola, non più immagini collocate in uno spazio prospettico illusionistico, ma tracce simili a fossili o pitture rupestri.
É in alcune delle sue performance e installazioni che Reble porta tuttavia a maturazione i frutti del suo lavoro. Alchemie (1992), Sysiphus (1992) e Das galaktische Zentrum (1994) presentano ai loro spettatori la simultanea formazione e distruzione di immagini che esistono solo in quell'unico momento. É un radicale confronto con quell'aspetto del cinema che ne ha fatto l'emblema dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, ma anche con quel connubio di tempo reale e infinita capacità di conservazione e riproduzione che caratterizza televisione e computer. Il carattere meditativo di tali opere sottolineato da Reble va interso nel senso che esse costringono lo spettatore a un'attenzione interamente rivolta a un 'qui e ora' così diverso da quello che collega tutti gli schermi del mondo in qualsiasi momento, mantenendoci però allo stesso tempo di fronte, o in mezzo, ad una realtà cosìillusoria ed emotivamente carica come quella del cinema."
(Marco Farano, Sul cinema di Jürgen Reble, in Lo Spazio Sospeso, catalogo della manifestazione omonima a cura di Aurora Fonuto e Carlo Gubetti)

-
Ho trattato le mie pellicole dipingendole su una tavola luminosa. Ma non operando sui singoli frame, bensì su un'area di circa sei strisce di pellicola in 16 mm di due metri di lunghezza. Alla fine ho rimontato insieme le strisce in un unico movimento fluttuante Sul piano delle filiazioni c'è una stretta relazione tra il mio lavoro e quello di Oskar Fischinger, Len Lye, Stan Brakhage e James Whitney
-

Gli agenti atmosferici, che tanta parte hanno nelle opere d'arte di Jürgen Reble, sono intervenuti anche sulla proiezione dei film previsti nella rassegna che avrebbe presentato la sua opera integrale, rendendo nell'epilogo inagibile lo spazio delle Officine Grandi Riparazioni di Torino in cui le Ferrovie ricoveravano i mezzi da aggiustare, capannoni ad H in disuso, temporaneamente riattati e adibiti a luoghi di proiezioni, installazioni, danze, dove si è potuto comunque assistere a riappropriazioni di processi naturali e scomposizioni dell'opera dell'uomo e della tecnologia attraverso parte della proiezione del regista tedesco nato nel 1956 a Düsseldorf: attraverso l'effetto alchemico si può vedere in trasparenza il processo inverso alla codificazione del linguaggio cinematografico ridotto alla sua essenza di macchie di colore a partire dalla narrazione, negata nella sua essenzialità di racconto analog(ic)o della realtà e riportata all'astrattismo del cinema puro, però mantenendo le estreme vestigia di un racconto che va gradualmente sparendo, ha già perduto le sue connotazioni caratteristiche e rilascia soltanto una sbiadita presenza sulla quale si possono ipotizzare le più disparate interpretazioni o lasciarsi rapire dalla sinestesia sensoriale classica; con l'inquietudine che si fa strada mentre i fotogrammi scorrono davanti all'obiettivo: quella materia che sta lavorando e subendo una trasformazione, opera a prescindere dall'uomo, anzi annulla il suo intervento volto a preservare il ricordo di un momento, a fissare una rappresentazione. Ma questo tende a voler significare la pochezza dell'uomo, che è fatto della stessa materia vitale (poiché sta lavorandosi la celluloide) e necrale (poiché il risultato è l'annullamento)? O piuttosto che la reificazione del soggetto è attento maggiormente alla rivalutazione della materia, ricollocata in una posizione centrale, corticale, dove le concrezioni sullo schermo rinunciano a parte della loro natura di luce per accentuare la loro sostanza chimica?

Sali e viraggi mi permettono di penetrare all'interno delle qualità fisiche e chimiche della pellicola. Dalla mole degli strati di materia sovrapposta risulta la sensazione di profondità spaziale su cui lavoro

Un'unica accezione di sperimentalismo ha ormai occupato l'intera scena eidomatica, quella delle immagini digitali, ogni forma di ricerca nel campo della riproduzione di immagini e suoni senza ausili informatici sembra appartenere ad un passato non più frequentabile, come se fossero ormai stati sperimentati tutti i segreti che la pellicola poteva custodire. Come Vincenzo Gioanola graffia la pellicola e la disegna direttamente sulla scia del grande maestro Norman McLaren, inventore pure di marchingegni atti a sincronizzare i fenomeni di riproduzione; come anche Gianikian e Ricci Lucchi intervengono sulla pellicola sviluppata in tempi antichi e riportata alla luce da polverosi magazzini, colorandola, restaurandola, rendendola viva - o materia che trasuda morte nelle trincee belliche; allo stesso modo Jürgen Reble considera il processo di sviluppo come semplice accidente nella esistenza della pellicola e non l'ultimo e definitivo atto della magia della visione. Infatti quella è solo la riproduzione della realtà, addizionata con l'interpretazione degli autori, ma dove l'epifania fenomenica del mondo è riconoscibile senza troppi sforzi per negoziare il codice, poiché è mimetico; da quella condizione iniziale con un'inversione della creazione si scompone il mondo nei suoi elementi astratti: il colore, la materia, la sensazione pre-logica che interessa i gangli immediatamente percettivi. La forma viene ricondotta alla sua pura espressione e solo sporadicamente alla mente è concesso di immaginare di riconoscere un senso, che forse un tempo è davvero rimasto impresso, ma ora è tornato ad essere disordinata serie di elementi minimali. Dissoluzione del senso le cui rovine rimangono in misura infima come residuo del palinsesto che mette in scena la congiunzione casuale dei componenti elementari del mondo prima che si formino in qualcosa di percepibile. Rispetto alle sperimentazioni dell'avanguardia storica, che come ricorda nell'acuto saggio inserito nel catalogo da Marco Farano (il mitico "Pere Ubu" dell'effervescente periodo della rinnovata attenzione per le avanguardie nei primi Anni Ottanta torinesi) apparentano l'autore tedesco con Walter Ruttmann, o ai guru del cinema sperimentale statunitense (Brackage e Maya Deren citati dal curatore stesso della personale quasi completa mostrata alle Officine Grandi Riparazioni di Torino), Reble si spinge oltre sul terreno dell'aleatorietà calcolata, un ossimoro spiegabile con la tecnica usata.

Questo non significa che Reble rinunci alla fiction: una narrazione esiste ad un livello più vicino a quello dello spettatore di quanto non sia l'elucubrazione sulla modificazione devolutiva del formalizzato: non è un percorso lineare verso la putrefazione che aveva inscenato Greenaway in A Zed and Two Noughts, ma è già un'allusione ai semplici impulsi elettrici che regolano i flussi del pensiero, qui rese possibili dalle epifanie cromatiche, meditate nella loro intrinseca natura biochimica: il colore come risultato eminentemente chimico derivato dal lavoro della natura sull'emulsione fotografica, che viene così messa a nudo dà vita a un processo a più strati di disvelamento: filosofico, perché coinvolge la concezione del mondo a partire dalla negazione del fenomenico puro e semplice, ma senza cadere nella metafisica; narrativo, in quanto mette a nudo l'esilità della narrazione ricoperta dal passaggio del tempo e degli agenti atmosferici: i batteri si riprendono la materia, ma anche la trama e inanellano storie di attrazioni e conflitti, momentanee esplosioni di luce e lunghi episodi di tenebra solo macchiata da residui di colore; metalinguistico, poiché ogni componente del cinema viene sviscerata, dal supporto tecnico della fotografia ai codici interni fino al suo organo costitutivo: la luce, che viene ridotta al minimo, immergendo le forme affette da un cinetismo spasmodico in un bagno di nero da cui sembrano scaturire e venire risucchiate dopo brevi attimi di vitalità.

Quando i materiali girati incominciano a parlarmi, divento una sorta di spettatore attivo. Allora posso guardare all'interno della loro vita propria e individuare tracce che portano a un messaggio relativo agli umori delle proprie sostanze

É una prassi che potremmo definire una specie di 'approccio sciamanico'

So cosa succederà al 60-70%. Il resto appartiene al caso. Non posso controllare tutto, ma questo non è un problema. Ormai ho sviluppato molte pellicole di ogni genere e so approssimativamente il tipo di reazione che provoca un certo prodotto su un certo supporto. Non è essenziale capire ciò che accadrà, ma piuttosto indovinarlo o sentirlo

Il film non è che un'illusione. Alla fine di una performance ci si avvicina di più alla realtà del film, poiché il film non è nient'altro che qualche molecola, un po' di plastica e di chimica

L'Aleatorietà dell'effetto finale e il pretesto offerto dall'object trouvé duchampiano (la pellicola estratta da un film, un trailer... ) sono in realtà risultati di un calcolo preciso che lascia soltanto ai singoli eventi che scorrono sullo schermo l'illusione di essere casuali, i batteri - come gli autori di qualunque film - producono un canovaccio di elementari tasselli che ciascuno nella sua fascinazione, catturata dall'Ur a cui alludono le figure in movimento, interpreta a piacimento: però è proprio la seduzione dell'operazione (accentuata dalla proiezione nel nostro caso di una fabbrica dismessa, da qualche anno preda della rinaturalizzazione spontanea da parte della natura: una location scelta con acume da Aurora Fornuto, la preparata e rigorosa curatrice della manifestazione) ad essere il calcolo degli artisti. I mezzi tecnici sono lo staff di virus che intaccano la superficie, ma il processo in generale è controllato da loro, soltanto i singoli effetti, le "inquadrature" scelte dai microrganismi, non sono ideati dagli autori, però la situazione, l'impianto filmico, gli effetti da ricondurre ad una Ur ctonica, che contiene nella creazione già il disfacimento, nell'origine il dissolvimento e la morte sono ascrivibili al gesto creativo messo in atto esponendo una pellicola alle intemperie, appendendola agli alberi di un giardino per mesi, immergendola nelle alghe per settimane. Il trascorrere del tempo e l'azione rivoluzionaria del virus che scompone il sistema di riferimento dell'integrità dell'opera originaria e mostra la decomposizione di quanto potrebbe apparire l'unica formalizzazione possibile di una realtà che qui si riduce a sbiadite ombre evanescenti sopraffatte dagli elementi della natura. Quel precedente spezzone di vita viene ricondotto all'interno del flusso materico di miliardi di anni e quindi quella realtà si riduce a incidente durato un attimo infinitesimale.

Le diverse cose che accadono sull'immagine costituiscono la mia idea del funzionamento della natura; una natura molto aggressiva, una sorta di panico. All'inizio di Passion ci sono immagini di un vulcano in eruzione. É una sorta di cambiamento della materia come quello operato dallo sbiancante sulla pellicola. Si può paragonare un fenomeno naturale ad un processo cinematografico

E questo introduce l'ennesimo intervento straniante rispetto alla realtà: la concezione temporale viene totalmente scardinata. Potremmo stare assistendo ad una proiezione infinita, oppure all'accelerazione di secoli di cosmogonie concentrate in un periodo brevissimo: non ci sono parametri e anche le forme che si muovono a digerire quelle vecchie immagini di celluloide hanno ritmi diversi. Il tempo è molte dimensioni... e dunque nessuna, in balia degli elementi, in particolare il fuoco - sempre presente sotto forma di balugini o di eruzioni di rosso - e l'acqua che erodono la certezza di eternità che da sempre l'immagine fissata su pellicola aveva tramandato.

Tutto il mio lavoro è un work in progress: è meglio vederlo che sentirne parlare. Legare l'oggetto e il soggetto. Bisogna instaurare un dialogo con la materia, o almeno ascoltarla

Non è casuale che spesso gli originali siano trailers: sono brevi porzioni con la presunzione di contenere tutti gli elementi di un racconto che finiscono con il divenire fantasie oniriche sulle quali si può inferire qualunque interpretazione. Ma proprio l'intreccio o l'atmosfera spariscono per fare da sfondo a una più avvincente trama di elementi minimali, in repentina e imprevedibile trasformazione costantemente in moto, interpretando l'essenza del cinema: il movimento.

Come il film disintegra le forme sullo schermo in un caleidoscopio di colori, i suoni della corrosione e della proiezione sono amplificati e usati come fonte per creare la colonna sonora, inventata da Thomas Köner, fondamentale per completare lo choc visivo panottico, talvolta assimilabile ad un microscopio potentissimo esplorante un vetrino la cui estensione è incontrollabile e comprende tutto il cinema, talaltra simile agli effetti di fascinazione siderale di telescopi sguinzagliati dietro a nebulose imprendibili e sempre cangianti.

Indipendentemente dalle due ricezioni sensuali/dimensionali che sono alla base dell'interazione tra suono e immagine, il punto più importante della collaborazione tra me e Thomas Köner è quello di riuscire a creare una sorta di polarizzazione spirituale, che ha più la funzione di aprire i sensi alla percezione che di individuare una relazione specifica di partenza tra le immagini e il suono
Expanded Cinemah Home Page