5. Autoreferenziale

 

La tecnologia informatica entra a far parte del mondo del cinema proprio per un'esigenza di integrazione di immagini con provenienze diverse" ma "il superamento del vincolo fotografico rappresenta il traguardo maggiore per il cinema che arriva a utilizzare l'animazione digitale come linguaggio totale
(Andrea Romeo, Vita da Pixel)

 

L'immagine cinematografica è costitutivamente ambigua, verosimile solo nel senso di potere mostrare la propria im-potenza a riprodurre esattamente il reale, appunto vera solo in quanto capace di fare sentire la fatica del vero...L'immagine digitale all'interno del film, saltando il momento della ripresa del/sul reale, sposta su un altro piano la tecnica di invenzione, mostra
tutti i suoi possibili riposizionamenti ma non del tutto la storia percettiva dello sguardo che l'ha prodotta.

(Lorenzo Esposito, “La diversità fruitiva”, Filmcritica 504)

 

Tesi di Esposito è che l'immagine digitale si realizza in assenza di un referente laddove invece l'immagine fotografica nasce da uno scambio con il mondo sensibile. Ciò che decreta la pochezza delle opere fortemente segnate dal lavoro in digitale (ma questo è già un giudizio di merito) sarebbe ciò che Esposito chiama "sganciamento" del mezzo tecnologico da un'avanguardia che ne sperimenti le possibilità creative.

Sembra che l'unico baluardo resistente alla reificazione del soggetto – paradossalmente – sia proprio la componente più materiale, del soggetto la parte più vicina all'oggetto, che per imporsi all'attenzione si riproduce nelle sue forme più estreme e si sottopone ai maneggi più atroci.

Le immagini fotografiche sono delle tracce di realtà la cui natura sostanzialmente ambigua è ben nota a chi si sia dilettato di e(ste)tica del cinema.
Il problema della traccia è dilatabile. Ancora una volta la riflessione estetica, soprattutto quella di alcuni critici cinematografici più attenti e rigorosi, si preoccupa della perdita (del referente), senza
automaticamente valutare la babele (proprio nel senso linguistico) che si prospetta attraverso un lavoro poietico, produzione, che comunque, nel senso ermeneutico, non può essere pura, ma sempre rielaborazione di dati precedenti. Ma quali saranno i referenti di questa nuova produzione-elaborazione? Sarà probabilmente una rielaborazione di coordinate spazio temporali legate a un racconto. Si conferma dunque l'importanza del racconto, dell'intrecciare storie. In questo senso dobbiamo sforzarci nel considerare questa nuova produzione altrettanto ricca di contenuti simbolici e di tutte quelle informazioni che provengono comunque da innumerevoli  forme di vissuto.

 

Allora forse per liberarsi definitivamente del referente ci vogliono esperienze estreme: il cinema espanso (a cui la nostra testata fa riferimento), oppure il cinema d'animazione astratto di Viking Eggeling, Oskar Fischinger, Hans Richter (ma in quel caso il referente era la musica) o Moholy Nagy (ma in quel caso era la tecnica, le sue superfici levigate, i meccanismi). Probabilmente l'unico ad esprimersi lontano da qualsiasi possibilità di rintracciare un referente "mimetico" è Pollock, ma non crediamo che Harris abbia fatto un film in digitale per moltiplicare all'ennesima potenza la sua a-referenzialità. Negazione di qualsiasi unità di riferimento: puro gesto artistico.