4. Dall’immagine-tempo all’immagine-funzione

 

 

L'ambiguità dell'immagine fotografica è nel suo darsi come presente.
L'immagine digitale, mancando del corpo, non ha questa natura duplice, non vive dell'oscillazione presenza-assenza: pare un'ultima manifestazione, nell'arte, di quel pensiero a una dimensione teorizzato da Marcuse. Alessandro Cappabianca è acuto nell’individuare la qualità dell'immagine: quella fotografica ferma e conferma il tempo - quella digitale non ha nessuna relazione con il tempo.

Non ci si rivede, nelle immagini digitali (modo di visione privato); non si creano relazioni coi luoghi (immagine come non-luogo). Ecco l'opposizione tra digitale e fotografico: fra ciò che non è mai stato, e ciò che è stato una volta.

L'immagine analogica è bensì carica di passato, ma questo passato glielo affibbiamo noi dall'esterno e a posteriori. Perché «la morte al lavoro» di cui vediamo gli effetti è frutto di una convenzione: se con la «cinematografia a tempo» (deliziosa definizione data dallo speaker dei documentari didattici che vedevo al liceo) riprendiamo un fiore che sboccia, nasce, appassisce, non è poi tanto vero che nell'immagini vediamo il passare del tempo. Lo vediamo nelle immagini, al plurale. Fotogramma dopo fotogramma, non è più la stessa immagine, e ognuna di esse (ognuno di essi) è immagine di un istante, in sé privo di durata (allora: qual è l'unità minima distintiva che scegliamo?). Il gioco è reso esplicito nell'animazione, poiché ogni scatto singolo, di per sé fermo, acquista movimento solo visto in successione con gli altri.
C'è un materialismo ontologico, dunque (che piacere, detto senza ironia), che va di pari passo a tutti i possibili atteggiamenti culturali e spirituali, questi sì che vanno «a bischero sciolto». E se c'è qualcuno che mi intriga per come utilizza i vari materiali visivi è Chris Marker, soprattutto l'uso del fermo fotogramma (roba vecchia...): qual è lo status dell'immagine clonata (lo faceva nei '60, altro che Dolly, oops, intendendo la pecora e non la gru,oops, certo una pecora non è neanche un fenicottero: uffa, volevo fare un esempio per chiarire, invece manco per la minchia: comunque ci siamo intesi)? Quale rapporto con il tempo e la durata instaura l'immagine iterata?

Pure nel digitale vale comunque il fatto che l'immagine ottenuta è ricavata dalla "memoria" di qualche altra "immagine" mentale immagazzinata; a quel punto essa sarebbe il suo referente: in questo senso farebbe pendere la bilancia platonica sul versante del mondo delle idee, espresso nell'intellezione, e non delle Immagini (per Platone termine negativo), legate all'opinione, e tanto meno della fenomenologia (la Credenza), oppure si fermerebbe al mondo della matematica (il Pensiero dianoetico)?

L'autore dell'intervento pensa all'avvento delle immagini digitali come ad una data storica del cinema: l'unica rivoluzione dopo il sonoro. Ma numerosi teorici del cinema sostengono che non sono intervenuti sostanziali cambiamenti nel linguaggio cinematografico dalla sua piena
maturità (gli anni Venti) fino ad oggi. Per cui il termine "rivoluzione" è improprio, come ricorda Masson, sia nel senso di Robespierre che in quello di Marx.
Parliamo, piuttosto, di passaggio dalla ri-produzione alla produzione.

La riproduzione del corpo filmico ha avuto la capacità di parlarci della sua scomparsa inevitabile, del suo destino di spettro.
Di cosa ci parla, invece, la produzione se non di mere immagini-funzione?

Dall'immagine finzione alla immagine-funzione: davvero troppo inattaccabile, indistruttibile questa nuova immagine. Mentre quell'altra era fragile, portava in sé le tracce della sua decomposizione a partire dai soggetti di cui aveva carpito l'anima, questa, immutabile e non databile, risulta inquietante. In questo aspetto rimarca la sua artificiosità, nel non essere riducibile a criteri mortali: mostro senza l'umanità del diverso, di Freak, di Frankenstein.