2. Che cosa sono le immagini

 

Il fantasma di un corpo in movimento è ontologicamente qualcosa di diverso da un disegno animato, per il semplice motivo che gli manca la dimensione della morte al lavoro.
(Alessandro Cappabianca, Filmcritica, 506/507)

 

La differenza che Cappabianca rileva come interessante è quella dell'origine, e non della funzione: che un effetto digitale sia fotorealistico o meno, che porti al dinosauro di Spielberg o a Buzz Lightyear, il fatto è che «si introduce un grande spartiacque, in campo filmico, tra il corpo e il mondo»

Queste operazioni a cavallo tra mondi - e pertanto talvolta anche catacombali - in fondo hanno comunque referenti, perché non fosse altro che grazie a quell'ombra platonica, nel momento in cui riusciamo a percepire una forma, già in quel momento la interpretiamo in base a nostri referenti interni, che non sono meno reali di quelli fotografici o più reali di quelli digitali. Si prendano in esame gli ectoplasmi di Brakage, che magari ad una prima visione sembrano apparentati con la realtà attraverso un legame di riproduzione: invece la rappresentazione che viene data è già interpretata alla fonte, viene ripresa già come se fosse altro e proprio quell'altro, mai esistito, è il suo referente. Dunque sono ciò che tra quello che viene impressionato su pellicola più si avvicina a quanto esisteva dall'altra parte dell'obiettivo nel momento in cui veniva ripreso, almeno dal punto di vista della produzione di senso attraverso la riproduzione di immagini. Perché quello che vedeva la mente dell'operatore si avvicinava moltissimo a quello che percepisce lo spettatore; ma in realtà – fenomenologicamente –– non è mai esistito. E dunque si trova nella stessa condizione di una creazione digitale. Anzi i pupazzetti iperrealisti di Lasseter, precisi e degni di ammirazione per la competenza tecnica, sono debitori della realtà molto più che le operazioni aleatorie di Reble o delle sperimentazioni di Norman McLaren.

Come ebbe a scrivere a suo tempo Argan: «se vi sono musiche senza parole, perché non dovrebbe esservi una pittura [e un cinema, aggiungiamo noi] senza cose?».
Allora se prendiamo il pennello digitale come uno fra gli strumenti della rappresentazione, il sospetto che nella teoria recente avvolge il cinema girato "in assenza delle cose" non è simile ad un certo pregiudizio che colpisce la pittura come fatto mentale, autonoma rispetto alla realtà?
É come se ci fosse dato il solo modo impressionista della rappresentazione.