Gli Spostati - Libri e cinema

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Questa è la fine o Il colonnello nel suo labirinto.
Note a margine di “Apocalypse Now Redux”

Our motto: Apocalypse Now

I will show you fear in a handful of dust
THE WASTE LAND

                                                                                              After this knowledge, what forgiveness?
GERONTION

 

Fumo. - Al modo del fiume Lung, che come un cavo elettrico attraversa il Vietnam per condurre all’ heart of darkness di Kurtz, un denso filo di fumo compone di apparizioni/sparizioni tutto il film. E’ quello delle infinite Marlboro accese spente, chieste offerte, passate di mano; è il fumo rosso e giallo dei fumogeni, disperso dalle pale degli elicotteri; il fumo del napalm il cui odore affascina il colonnello Kilgore della Cavalleria dell’Aria, nonché la bianca bruma palustre in cui si cela la base-tempio di Kurtz nella wilderness cambogiana, e ancora i fumi sacrificali nel finale: tutto è sipario e minaccia, cortina che occulta o vanescente foschia che svela alla vista. Ma da un certo punto in poi, per Willard l’equivalenza vedere=conoscere è disinnescata. La fine della sua Nèkyia è – naturalmente – un’origine: un punto primordiale in cui si vanifica il sistema di valori e inibizioni della “civiltà”, un luogo di “real freedom” (secondo la sentenza di Kurtz) dove “non contano le opinioni degli altri e neanche le proprie”: anarchica dissoluzione nell’Indifferenziato-Natura dove Bene e Male evaporano nell’indecidibile, ultima Thule, e quanto ironica, per l’individuo occidentale che all’apice del progresso ha scoperto Décadence e Nihil. Non stupisce perciò che Kurtz sia un uomo colto[1], eloquente e forse poeta in proprio, che citi da Eliot, cioè dal poeta esemplare della fine della modernità, dell’angoscia delle rovine, un poeta terminale che come lui parla con la voce altrui. Per bocca del fotografo-fool sappiamo che Kurtz ripete con Prufrock: “Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli/ che corrono sul fondo di mari silenziosi”[2]: è la natura che ignora, e sopravanza, la Storia. Ma non solo: Kurtz offre, ad un Willard ancora stordito dalla prigionia, una lettura quasi integrale della poesia di Eliot dedicata proprio a lui: infatti l’esergo di The Hollow Men (1925) è la frase con cui il servitore annuncia la morte di Kurtz nel racconto di Conrad: “Mistah Kurtz – he dead”. Gli ultimi versi di The Hollow Men servono al fotografo per congedarsi da Willard: “Not with a bang but a whimper[3].

 

Orrore. - Non è un mistero l’importanza dell’opera di Conrad, e di Heart of Darkness in particolare, per T.S. Eliot, se è vero che l’esergo di The Waste Land (1922), prima dell’intervento censorio e “fabbrile” di Ezra Pound, doveva essere la sequenza dell’ultimo respiro di Kurtz nel racconto, consuntivo di un’esperienza umana e del cammino di una civiltà: “Rivisse la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e abbandono, durante quel momento supremo di completa conoscenza? Gridò in un bisbiglio a un’immagine, a una visione – gridò due volte, un grido che non era più di un respiro: ‘L’orrore! l’orrore!’ ”. (Naturalmente, nel film, i libri che Kurtz tiene sul tavolino, e che lentamente la macchina da presa scopre accanto alla Bibbia, sono The Golden Bough di Frazer e From Ritual to Romance della Weston, indicati dallo stesso Eliot, nelle note alla Waste Land, come proprie fonti e guide indispensabili per cogliere il piano dei rapporti e i sensi mitici del poemetto.)

L’orrore, dunque: e in una sorta di continuum fonico, di mantra, hollow/horror. In Conrad l’uomo “civile” che va a colonizzare il Congo è hollow, e produce il vuoto intorno a sé, desertifica tutto. Vuoto è il mondo degli impiegati coloniali in Conrad come quello della macchina militare per Coppola, vuoto il mondo degli uomini-larve intruppati nella unreal city eliotiana[4] o nella “sepolcrale” Bruxelles di Heart of Darkness; senza contare il peso che questa visione limbale dello spazio urbano riveste in Dickens come in Baudelaire. Anche Kurtz è vuoto: “[La wilderness] aveva echeggiato fragorosamente dentro di lui, perché era vuoto fin nel profondo [hollow at the core]…“[5]. Se Kurtz è hollow at the core, possiede un punctum caecum nel centro del campo psichico in cui precisamente si annida il potere di fascinazione della wilderness[6], e il ritorno del rimosso nelle specie di quella darkness che è sua e non del Congo-Vietnam. Così l’orrore si dispone in coppia significante con il fascino (in Kurtz verso la wilderness, in Willard, progressivamente, verso Kurtz), e non come pendolo, ma come polarità (“Odiava tutto questo, eppure in qualche modo non riusciva a staccarsene”[7]): al cospetto del volto terribile e sublime di una Natura da dialogo leopardiano, ma muta e impassibile come una maschera[8], che non si ammanta di eloquenza se non nella lucida follia di Kurtz, nei frammenti con cui egli puntella le proprie rovine[9]. E comunque “Non ci sono parole per descrivere…l’orrore…” (Marlon Brando nel film).

 

Pagano. - Nella sua riscoperta della crudeltà primigenia, aliena dal giudizio, Kurtz rimanda inoltre alle intenzioni di Rimbaud nella Saison en Enfer, quando preconizzava a se stesso un omologo rifiuto invocando il sangue pagano: “Ritornerò, le membra come il ferro, la pelle scura, lo sguardo furibondo: dalla mia maschera, mi crederanno di una razza forte. Avrò dell’oro: sarò ozioso e brutale.”[10] Come il Rimbaud nègre, vessillifero di quella fuga dall’Occidente destinata a diventare tratto precipuo delle avanguardie novecentesche, Kurtz ha “grandi progetti” (“I had immense plans”, “I was on the threshold of great things[11]) che sono il rovescio di quelli coloniali; il rifiuto di Scienza e Pazienza (“Il moderno Ecclesiaste, ossia Tutti”, Rimbaud[12]) lo proietta paradossalmente non fuori dall’Occidente ma nel suo cuore oscuro di potere e violenza: Kurtz diviene un dio coperto d’avorio che si compiace dell’adorazione come della razzia (“il mio avorio”[13]). A ciò si aggiunga un’altra figura magnetica per Rimbaud, che compare nella Saison sempre nella sezione Sangue cattivo: è il forzato intrattabile “su cui si richiude sempre l’ergastolo”[14], e a cui si può assimilare l’outcast conradiano, il reietto che dà l’addio aux anciens parapets d’Europa per perdersi nella wilderness primordiale. Del resto il tipo del révolté prende la parola diverse volte nell’opera di Rimbaud, e con i più diversi propositi: 

…vedo che la causa dei miei malesseri è il non aver immaginato per tempo che siamo in Occidente. La palude occidentale! […] Mandavo al diavolo le palme dei martiri, i raggi dell’arte, l’orgoglio degli inventori, l’ardore dei predoni; ritornavo all’Oriente e alla saggezza primeva, eterna. – Pare che sia un sogno di rozza pigrizia. (L’Impossibile)[15] 

Alcuni hanno voluto leggere in Democratie (nelle Illuminations) un’esplicita satira della violenza coloniale:

“La bandiera avanza verso il paesaggio immondo, e il nostro dialetto soffoca il tamburo.
Nei centri fomenteremo la più cinica prostituzione. Massacreremo le rivolte logiche.
Nei paesi speziati e fradici! – al servizio del più mostruoso sfruttamento industriale e militare.
Arrivederci qui, dovunque. Coscritti di buona volontà, avremo la filosofia feroce; ignoranti per la scienza, furbi per il comfort; e creperemo per il mondo che avanza. E' il vero cammino. Avanti, in marcia!”
[16]

 

Purgatorio. - Il viaggio di Willard in Apocalypse è davvero senza tempo, perché appartiene ad ogni tempo; journey back in time, la risalita di un fiume (archetipo di Tempo, Vita e Ricerca) è una metafora fondante. Willard rifà a ritroso la storia della civilizzazione in quella parte di mondo: dal Vietnam alla colonizzazione francese (l’episodio aggiunto da Coppola nella versione Redux), alla giungla. Nella misura in cui l’espiazione coincide per lui con una acquisizione di identità, si può parlare di viaggio iniziatico. Le tappe successive (Le Conigliette, La Tigre, La Barca…) hanno una funzione catartica come nel Purgatorio dantesco; e il ponte di Do Lung, ogni notte distrutto e ricostruito, con quella barca a cui si appigliano strepitanti dannati, non è la più scenografica porta Inferi ?

Ma Willard è un antieroe (“No! I am not prince Hamlet, nor was meant to be “, Eliot[17]), e forse perciò non si perde come Kurtz (che è il rovescio hanté del tipico eroe conradiano…). Questi sa fin dall’inizio che dovrà morire; e vede in Willard un apostolo predestinato a far ritorno in America e a testimoniare, perché non vada perduto, il Vangelo della darkness – che abbiamo visto non essere tanto quella del Vietnam, quanto il rimosso che infesta il cuore dell’America. Allora il Vietnam, l’Altro, è uno specchio di Medusa oppure una coppa mistica come quella degli affreschi pompeiani della Villa dei Misteri, coppa in cui l’Occidente vede riflesso, sul volto dell’outcast volontario, il proprio nulla (Hollow/Horror) e si fa “di smalto”[18]. Non dimentichiamo che il ferito, l’escluso, è mediatore di conoscenza divina anche per Sofocle (Filottete, Tiresia). Che il succo di questa conoscenza sia l’orrore, è la maledizione della Storia. Nascosto nel foco che gli affina[19], contemplando nel proprio cattivo genio il seme perverso di tutta una civiltà, un Kurtz in Purgatorio potrebbe benissimo parlare nella voce di Arnaut Daniel : Consiros vei la passada folor[20] (Purg. XXVI, canto fondamentale per Eliot; e ancora nella Waste Land, visto che è Arnaut/Pound il miglior fabbro della dedica…). Si rimagnetizzano così i valori delle figure purgatoriali, e Purgatorio vuol dire attesa: Kurtz attende da Willard la liberazione nella morte e l’apostolato in Occidente (ancora l’Arnaut Daniel dantesco: Sovenha vos a temps de ma dolor![21]), mentre da lui Willard si ripromette una rivelazione ultima (che è poi il senso etimologico dell’Apocalisse anche biblica: “rivelazione delle cose nascoste”): quindi ancora l’orrore…

Il tema di Purg. XXVI è il sesso; una corrente sotterranea di sesso illecito percorre anche Apocalypse (che ne sappiamo delle “pratiche indicibili” a cui si abbandonava Kurtz?), riflesso della visione in Conrad di un colonialismo percepito - consciamente o meno - come stupro, ma inerme di fronte al volto sfingeo della Natura che infine ha ragione del suo rappresentante paradigmatico, l’Uomo Colto e Progredito, facendo coincidere conoscenza di sé e follia[22]. Come Laforgue, altro autore demonico per Eliot, Kurtz, accusato di “assoluta mancanza di metodo”[23], potrebbe insorgere: “Metodo, Metodo, che vuoi tu da me? Lo sai che io ho morso il frutto dell’Incoscienza!”[24]. Egli ha compiuto a ritroso il cammino della civiltà, vanificando i dati delle inibizioni virtuose che fondano una cultura (in senso antropologico). Ecco perché non ci si può rivolgergli “in nome di niente, nobile o ignobile”[25].

 

Mito. - Oltre il modello esplicito di Heart of Darkness, le connessioni di Apocalypse con The Waste Land sono allora ben più che coincidenze significative, ma vere e proprie consonanze fra due opere entrambe emblematiche dello scacco e del disincanto, che prendono le mosse da un’angoscia storica (per Eliot era stata la Grande Guerra). La filigrana mitica è offerta dal Ramo d’Oro[26] di James Frazer, nella cui compilazione hanno un posto centrale antichi miti di vegetazione come quelli di Adone e Attis, che rimandano al ciclo stagionale e al grano, e regicidii rituali come quello di Nemi. Nell’arricchire il racconto di Conrad, Coppola si dimostra un seguace di Frazer più pedissequo di quanto forse non sia stato Eliot; le ripetute allusioni al piano poetico in cui si situa The Waste Land, con i vari parallelismi virgiliani e danteschi, gli servono a corroborare il sistema - e a trasformarlo in visione secondo convergenti e reciproci disegni di significato, dal piano storico (il Vietnam) al piano primario dello scontro fra natura e cultura.

Si produce così in Apocalypse Now un’idea di ciclicità, di compresenza delle epoche secondo cui Willard e Kurtz non sono che gli ennesimi attanti di un rito ancestrale di vegetazione che comporta la morte di un re malato o impotente (iuxta Frazer, la Weston ed Eliot): ripetendo il mito di Crono, il figlio è pronto ad uccidere il re-dio che lo sta aspettando, e ne prenderà il posto, ma non prima di essersi identificato con lui. Con il deicidio di Kurtz, Willard conquista se stesso in lui: il suo premio è una conoscenza terribile (“L’orrore”, la verità di Kurtz), e significativamente si crea nel buio. L’uccisione del dio non può essere mostrata (è mistica in senso etimologico), perciò un’oscurità rituale avvolge l’ossesso Willard mentre scanna il remarkable man indiato. L’elicottero che all’inizio del film preleva un toro durante una grottesca Messa in mezzo al massacro del villaggio viet, può benissimo averlo deposto adesso nel cerchio del rito tribale – vittima ed esplicito simbolo cristico il cui sacrificio è alternato, nel montaggio, con la morte ieratica di Kurtz.

 

Finale. - Film alfa e omega insieme, tentativo di opera totale e gioco di sparsi frammenti, film sempre finale ma mai finito, Apocalypse Now sfrutta il prisma dei suoi referenti letterari per illuminare con terribile franchezza[27] il suo senso: qualcosa come il procedimento mitico e impersonale di Eliot, che in The Waste Land convoca i più diversi echi letterari per confermare/complicare il suo significato. “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”. Nella desperate land del Vietnam finiscono i giovani che per ultimi nella nostra storia hanno potuto toccare l’utopia con mano; ma il ragazzino che ascoltava estasiato Satisfaction muore sotto i colpi sparati dal profondo della giungla senza sapere niente di più del giorno in cui è partito. Il rovescio del sogno è ancora una volta l’orrore, la negazione della conoscenza, la fine di una cultura e la rovina delle sue certezze. La fine: in The End, la canzone dei Doors che apre e chiude il film, Jim Morrison sillaba “The children are insane…”. Davvero folli sono i figli dell’Occidente: “West is the best. / Get here, and we’ll do the rest.”.

Fabio Pedone


[1] Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, Einaudi 1999, p. 157: “Tutta l’Europa aveva collaborato a formare Kurtz.”

[2] T.S. Eliot, Il Canto d’Amore di J. Alfred Prufrock, in Poesie, a c. di R. Sanesi, Bompiani 1983, p. 165

[3] T. S. Eliot, Gli Uomini Vuoti, in Poesie, cit., p. 297: “E’ questo il modo in cui il mondo finisce/ Non già con uno schianto ma con un piagnisteo

[4] T. S. Eliot, La Terra Desolata, vv. 60-76

[5] Joseph Conrad, Cuore di tenebra, cit, p. 182

[6] Guido Carboni chiarisce che la wilderness, come “qualità essenziale del territorio non domato” che “rende tale il selvaggio”, “non solo fa parte molto concretamente dell’esperienza storica degli USA, ma è l’idea portante intorno alla quale, esplicitamente e implicitamente, l’identità nazionale si è venuta costituendo”; “in altri termini, wilderness è un termine profondamente radicato da un punto di vista storico.” (G. Carboni, Nota critica a Wallace Stevens, Mattino Domenicale e altre poesie, Einaudi 1988, p. 164)

[7] Joseph Conrad, op. cit., p. 179

[8] Ibid.

[9] T.S. Eliot, La Terra Desolata, v. 430; sull’eloquenza di Kurtz come forma di potere, vedi l’ultimo paragrafo dell’introduzione di G. Sertoli a Cuore di Tenebra (cit., pp. XXXVII – XLIV)

[10] Arthur Rimbaud, Una Stagione all’Inferno, in Opere, a c. di G. P. Bona, Einaudi 1973, pp. 377 e 379

[11] Joseph Conrad, op. cit., pp. 206 e 208

[12] Arthur Rimbaud, op. cit., p. 413

[13] Joseph Conrad, op. cit., p. 153

[14] Arthur Rimbaud, op. cit., p. 378

[15] Id., op. cit., p. 409

[16] Id., op. cit., p. 366

[17] T.S. Eliot, Il Canto d’Amore di J.Alfred Prufrock, in Poesie, cit., p. 166

[18] Dante, Inferno, IX, v. 52: “Vegna Medusa: sì il farem di smalto”

[19] T.S. Eliot, La Terra Desolata, v. 427, che cita Dante, Purg., XXVI, v. 148

[20] Dante, Purgatorio, XXVI, v. 143: “Afflitto vedo la passata follia”

[21] Dante, Purg., XXVI, v. 147: “Al tempo opportuno ricordatevi del mio dolore!”

[22] Joseph Conrad, op. cit., p. 211: “Ma la sua anima era folle. Sola in quella immensità selvaggia, aveva guardato dentro di sé e, perdio, vi dico che era impazzita.”

[23] Id., op. cit., p. 197, e cfr. Martin Sheen nel film: “I see no method at all

[24] Jules Laforgue, Amleto, in Poesie e Prose, a c. di Ivos Margoni, Mondadori 1998, p.282

[25] Joseph Conrad, op. cit., p. 209

[26] James Frazer, Il Ramo d’Oro. Studio sulla magia e la religione (1922), Bollati Boringhieri 1990.

[27] Joseph Conrad, op. cit., p. 110