Festival Internazionale Cinema Giovani

Incontri
... possibili e talvolta impossibili; chi s'è visto s'è visto!

¡Qué viva México!
Tra cinema e letteratura

Consolidando una giovane tradizione, anche quest'anno il Festival anticipa l'avvio della retrospettiva che ogni anno lo connota, rispetto all'inizio delle proiezioni in concorso.

Il tema del filone retrospettivo principale nel 1997 è "L'età d'oro del cinema mexicano. 1933 - 1960", una cinematografia poco conosciuta in genere, poco "frequentata" anche dai festival (se si eccettuano le ovvie divagazioni sul periodo messicano di Buñuel), che Cinema Giovani ha deciso di omaggiare due volte, affiancando alla rassegna in questione una personale di un autore mexicano che ha cominciato a lavorare proprio alla fine del periodo esaminato: Arturo Ripstein. Va infine notato che questa scelta di campo costituisce la prima rottura con quella che era stata la tradizione del Festival, e cioè dedicare una retrospettiva alle "nuove onde" sviluppatesi in particolare negli anni 60.

La retrospettiva è stata introdotta da una tavola rotonda che, partendo dal background letterario di molti dei suoi partecipanti, è riuscita a spostare minuto dopo minuto l'attenzione sul cinema messicano e sulle problematiche legate al posizionamento di questo nell'industria culturale globalizzata.
Su istigazione di Gianni Minà, ormai un veterano mediatico della diffusione di conoscenze e passioni latino-americane, prima Pino Cacucci ha rievocato la sua propria folgorazione ricevuta in/dal Messico, ripercorrendo il tragitto che lo ha portato a collaborare con Salvatores per Puerto Escondido; poi Fernando Macotela, in un perfetto italiano ha condotto un'analisi molto puntuale e appassionata dell'evoluzione dell'industria culturale cinematografica in Messico e dei suoi rapporti con l'incombente e ingombrante vicinanza hollywoodiana. La prima conclusione a cui giunge Macotela è che il problema sussite, ancor prima che nella produzione (anche se più avanti nel dibattito si scoprirà che il Messico ha prodotto nell'ultimo anno solo sette film), nella distribuzione. Dopo aver citato (a proposito della acquisizione dei film di Ripstein da parte della Buena Vista) il caso di un suo film sulle Olimpiadi di Città del Messico acquistato dalla Columbia per non distribuirlo, egli depreca l'atteggiamento tenuto dai distributori americani: "Ma quale mercato conquistiamo noi messicani in America? I nostri film vengono sì distribuiti, ma privi di qualsiasi traduzione (sottotitolo o doppiaggio), per cui la "conquista" del mercato americano ci è preclusa e non ci è lasciata che una nicchia predefinita, quella degli statunitensi di lingua ispanica, gli emigrati." A questo si aggiunge un'ulteriore forma di blocco censorio generata dagli stereotipi e esercitata anche da parecchi festival: dai paesi latino-americani, si pretendono solo opere di denuncia politica o sociale, possibilmente in una veste visiva povera, perché questa è l'immagine che di essi viene diffusa a livello dei media e anche di molti intellettuali.

Sulla qualità dei prodotti messicani, Macotela riporta di crisi creative ricorrenti, ma a cui si è fatto fronte, ad esempio, negli anni '60, con concorsi di cinema sperimentale; ed infatti, proprio negli anni '60, pur con i primi segnali della crisi produttiva che si aggraverà poi nei '70 fino ad oggi, debuttano nomi importanti come Ripstein ed Hermosillo.

Emilio Carballido è un pezzo di storia della letteratura e della sceneggiatura mexicana e vuole esprimersi solo a riguardo dei rapporti tra cinema e Ola letteraria, in modo da far emergere le difficoltà della scrittura per il cinema.

Con uno stile più scanzonato, ma ugualmente incisivo, in sintonia con lo spirito dei suoi libri, ha preso la parola Paco Ignacio Taibo II, rifiutando (e motivando questa scelta) di parlare del cinema messicano come se ci si trovasse a una "mostra archeologica": ha preferito invece raccontare come la sua generazione si sia nutrita di un sapere orizzontale in sintonia con lo spirito del tempo piuttosto che verticale, diacronicamente riferito al passato nazionale, più interessata ad analizzare fenomeni politici e culturali transnazionali che non a rapportarsi con la storia recente della cultura messicana. Da qui nasce la passione per il cinema italiano di quegli anni (i '60, ancora), la stima per nomi quali Rosi e Pontecorvo, la concezione dell'arte e in particolare della letteratura come di potenti strumenti di documentazione storica, l'attenzione mai sopita verso le scienze sociali e la narrazione di "microstorie". Taibo confessa ironicamente la sua ammirazione per i registi messicani, costretti a lavorare in condizioni difficilissime, visto che in passato erano costretti a subire una pesante ingerenza statale nella produzione; fatto, questo, che se da un lato produceva positive spinte produttive e strutturali, dall'altro interveniva sciaguratamente direttamente sui copioni, quando non creava veri e propri casi di ostracismo nei confronti di alcuni autori. Del suo rapporto con la scrittura cinematografica, difficile e concretizzatosi in pochissimi episodi, Taibo dice: "Faccio fatica a scrivere per il cinema, perché sono completamente assuefatto al linguaggio letterario. quello che vedo quando cammino per la strada, ad esempio, lo assimilo e lo verbalizzo inconsciamente con uno stile che va bene per la pagina scritta, ma che ovviamente mal si adatta al copione cinematografico.

Como Mexico no hay dos

Cacucci dice di essere capitato in Mexico per un incidente di percorso: "Non sapevo dove andare"; spergiurando che non aveva alcun interesse cinematografico o letterario. Tuttavia i nomi di Peckimpah e Leone ricorrono nel tema ormai vetusto della fuga, come si evince dall'articolo fatto comparire su Torino Sette, supplemento del venerdì per La Stampa, sul quale è ricalcato il suo intervento con pochi spunti lasciati all'improvvisazione. Proprio attraverso il binomio Mexico/frontiera per fuggiaschi s'introduce la figura mitica di Emilio Fernandez, un altro dei pilastri della serata, spesso evocato da Minà. Il suo soprannome era El Indio, ma a Cacucci interessa in collegamento con The Wild Bunch, dove copriva il ruolo per lui inusitato di generale: stava dalla parte opposta a quella a lui più congeniale. Nel finale del suo intervento Cacucci si servirà di El Indio per infilare alcune battute sull'industria hollywoodiana che lo utilizzò come modello per l'Oscar: "Ogni anno gli yankees regalano un indio messicano in premio".
Ma è merito di Cacucci se compare da subito il tema essenziale:
l'imperialismo culturale e politico degli USA. Lo fa con una semplice considerazione che aleggerà per tutto il dibattito: "Dagli anni '40-'50 i film messicani spariscono, perché devono lasciare spazio ad un'altra cinematografia, nonostante a Churubusco esistano gli Studios più grandi del mondo e con i migliori artigiani.

Macotela è sicuro che non esistano frontiere e per suffragare questa convinzione rileva che il film messicano di maggior successo deriva da un racconto di Mahfuz, il premio Nobel egiziano, che lo ha adattato all'atmosfera mexicana.
Piuttosto le frontiere vengono innalzate dal
"libero" mercato che impedisce il libero scambio tra le cinematografie più deboli.

El Toque de Mida invertido

Taibo individua una qualità straordinaria nello stato mexicano. Possiede una qualità unica a livello planetario: il tocco di Mida invertito, tutto ciò che tocca si converte in cacca. Si tentò la cooptazione dell'intellettualità per trasformarla in organica, poiché era l'unico apetto non organico di un paese in cui tutto è corporativo. Per far ciò si è assistito ad uno sviluppo spettacolare di cultura negli ultimi cinquant'anni, protetta da una delle più interessanti infrastrutture a creare una delle catene di teatri più invidiabili al mondo, per ottenere attraverso la complicità degli intellettuali la pace sociale. Si costruirono due grandi Studios per case di produzione statali, una rete di distribuzione statale che proteggeva la produzione nazionale, una banca cinematografica per assicurare i finanziamenti e una catena di infrastrutture parallele che consente la distribuzione dei prodotti latino-americani e spagnoli, promuovendo l'interscambio. Tutto ciò permise alla generazione di Ripstein di emergere, però nel momento in cui diventarono autori di buon livello, si scatenò il tocco di Mida, che li bloccò con la burocrazia, preludio degli ultimi deliri neoliberali, che vogliono smantellare tutto, perché il cinema sarebbe occupato al 90% da dissidenti organici.
Questo è il frutto della llegada de los nietos (l'avvento dei nipoti, a cui noi italiani siamo assuefatti da anni di ereditarietà dei ruoli e dalle dinastie): Taibo sottolinea che lui non è junior (in Mexico è un dispregiativo per definire i figli di papà), ma segundo e stigmatizza la figura del nieto: sono voraci come i nonni, possiedono lo stesso autoritarismo dispotico dei padri, in più sono neo-liberali.
Di contro la sua ammirazione va ai registi che lavorarono in condizioni disperate: "Nonostante tutte le difficoltà quella generazione ha prodotto pellicole di qualità straordinaria e questi sono i miei
riferimenti nazionali, per cui quando incontro per strada quei registi, li invito senza esitazioni a bere una cocacola".

El Supermercado

Minà inanella i discorsi raccontando aneddoti, uno di questi riguarda Puenzo. Il regista doveva adattare un racconto di Fuentes per conto di una produzione di gringos. Dapprima gli sostituirono Anthony Quinn, perché non volevano rischiare con un attore dotato di by-pass, poi arrivò in fase di montaggio una responsabile incinta, che proveniva dal mondo della carta igienica. Ella pretese un montaggio in sequenza, privo di flash-back, poiché il pubblico secondo lei non era avvezzo, infine a Puenzo fu imposta anche una storia d'amore, che però non era stata girata e dunque era difficile da montarsi.

Taibo risponde con un altro aneddoto. Dice di aver ritrovato a New York la versione integrale di Lawrence d'Arabia, che contiene 50 minuti in più di quella che è stata distribuita. Subito la comprò, pensando che la parte censurata riguardasse l'omosessualità di Lawrence. "Arrivo a casa, mi siedo: due ore e mezza di cinema meraviglioso e scopro che hanno censurato il deserto. L'altra ora di pellicola era il mondo del deserto, la solitudine, i colori del deserto. Non ho scoperto qual è la morale di tutto ciò, però so che ci deve essere una morale importante sottesa al massacro di un'ora di deserto. E so inoltre che la seconda versione, quella non tagliata, è infinitamente più bella di quella che conosciamo.".
Macotela suggerisce che fu tagliata perché il deserto non contiene i mercati e non fa mercato

La tradicion rebelde

Per i riferimenti trans-nazionali Taibo confessa che il 98% dei militanti della sinistra messicana degli anni '60 sognava di accompagnarsi o con Sophia Loren o con Gina Lollobrigida, il restante 2% invece sognava di scrivere un racconto così buono che Rosi o Pontecorvo avrebbero deciso di trasporlo in film. L'influenza del cinema politico italiano fu trascendentale: era la dimostrazione che la politica era un'estetica e che si poteva avere un'estetica politica. Lo Scandalo di Monicelli ci riportava al meglio della nostra tradizione: la tradizione del grande gesto, il personaggio posto di fronte ad una situazione che dà luogo al gesto eroico. Il cinema politico fu fondamentale per creare quella tradizione ribelle che ci ha accompagnato negli ultimi trent'anni di opposizione al potere. L'estetica dell'orgoglio e del gesto: Petri, Rosi, Pontecorvo, Monicelli convertivano la politica in narrativa d'azione.
Quando la gioventù messicana andò a vedere La Battaglia di Algeri, fu accolta all'uscita da trecento granaderos della polizia schierati di fronte al cinema; ed era il posto giusto in cui dovevano stare: infatti quando uscimmo cominciammo a urlare come le donne algerine che avevamo visto poc'anzi urlare nella qasbah. Quella interconnessione di elementi universali produsse anche una sensazione di vuoto: ci si chiedeva da dove venivamo, perché così tante bandiere di Mao e così poche di Zapata? Questa domanda prelude alla creazione del modello culturale della mia generazione: la ricerca della messicanità perduta e fortunatamente non ancora ritrovata, producendo una generazione fortemente interessata alla microstoria e alla situazione sociale e la letteratura è una ricostruzione informativa, dove la città è vista come narratore protagonista, spostando la centralità letteraria ... e il cinema sta proprio lì.

El cine destrue palabras para construir imagenes

"Il cinema messicano sta vivendo uno dei suoi momenti peggiori dal punto di vista artistico e industriale, perché il cinema è prima di tutto industria e gli autori sanno cosa vogliono, ma scrivono ciò che è richiesto¨.
Per Emilio Carballido la scrittura delle sceneggiature deve essere originale, fatta appositamente per i registi, che impongono i loro punti di vista e avanzano richieste talvolta incomprensibili, ma sono loro che realizzano l'opera e lo sceneggiatore non riesce ad avere la forza per rivendicare maggiore importanza. Carballido focalizza il problema sulla lunghezza dei racconti da cui trarre la sceneggiatura. Questi non possono superare le 50 pagine. Per questo motivo Cronaca di una morte annunciata di Rosi non è la storia di Garcia Marquez.

Macotela riesuma anch'egli Gabo, il quale, sollecitato durante una cena a rivelare i motivi per cui non rendeva disponibili i diritti cinematografici di Cent'anni di solitudine, fece un sondaggio tra i commensali sulle caratteristiche di Aureliano Buendia. Nessuna delle figure evocate coincideva con un'altra. Ecco il motivo per cui non potrà essere adattato quel romanzo e la conferma di ciò che diceva Carballido a proposito dell'originalità dei copioni.

Cacucci riemerge dall'ammirata reverenza verso l'esuberanza di Taibo, ricordando proprie indignazioni succedute alla visione di riduzioni cinematografiche di opere amate: ad esempio, giunse a non riconoscere L'amico americano. Poi realizzò che si trattava del film di Wenders e non del libro di Patricia Highsmith. Anche per quel che riguarda la lunghezza Cacucci ha rilievi da interporre a partire dalla propria esperienza: nel caso di Puerto Escondido la mole di materiale era tale che avrebbe richiesto sette ore e mezza, dunque il suo timore era che venissero trasformati in macchietta taluni aspetti del Mexico. Alla fine fu soddisfatto del lavoro di Salvatores; ¨ovviamente il libro è una cosa diversa dal film, per forza¨.
Quello che è interessante di tutto questo è che il Mexico risulta tanto esotico da poter essere travisato facilmente.

Più meditata è la riflessione di Taibo, che fa risalire la propria scarsa propensione alla sceneggiatura al suo bisogno dei tempi lunghi del romanzo: ¨Scriverei racconti da undici ore di film¨. Considera un giusto mezzo la produzione di miniserie, che consentono la trasposizione letteraria, mentre il cinema sintetizza. ¨La mia caratteristica è l'interesse per le storie secondarie: ciò che mi attira nello scrivere novelle è che improvvisamente compare il liceale che suona la cornetta ed io per le successive seicento pagine lo voglio seguire, invece il cinema mi richiede di uccidere il ragazzo che disturba la centralità narrativa¨.

Taibo confessa di aver scritto alcune sceneggiature orribili, l'unica riuscita fu un incidente dovuto al fatto che non aveva aperto il libro da cui doveva fare l'adattamento, così operò solo con l'eco del racconto che lo accompagnava nella testa; in questo modo non rischiava di tradire la parola. ¨È l'influenza del linguaggio che mi segue sempre; cammino per la strada e vedo le scritte e verbalizzo ciò che leggo, perché la visualità letteraria è verbalizzatrice, costruisce parole a partire dalle immagini, il cinema all'inverso distrugge parole per costruire immagini¨. Non cercatelo: il film non si fece, perché narrava la storia di funzionari che si dedicano al traffico di droga, al contrabbando e alla frode elettorale.

La proposta cardenista

Minà tira le fila del discorso, individuando nella distribuzione il problema di fondo (a questo proposito vi rinviamo alla nostra inchiesta in corso, contenuta nel numero in distribuzione della sezione cartacea della rivista Cinemah): in Mexico come in Italia gli autori non hanno più la possibilità di mettere nelle sale i film. Un problema economico che nasconde una situazione di attacco alla identità dei singoli paesi.
Ma nel momento in cui rivela che un paese di quasi novanta milioni di abitanti può produrre solo sette film all'anno, scatena le rivelazioni di Taibo:
¨La proposta cardenista porterà a sessanta film prodotti, di tutti i formati: corti, miniserie, lungometraggi; saranno create sei nuove sale nel DF ed infine saranno create sale video, capillarmente inserite nel territorio, dove verranno sistemati in simultanea i film immediatamente dopo lo sfruttamento nelle sale, per raggiungere il maggior numero di persone. Cosa essenziale: non si prevede alcun controllo o indirizzo sui contenuti¨.
Offre il destro a Minà per polemizzare giustamente con Cecchi Gori, che cerca di colonizzare il gusto, rischiando di ammazzare persino gli altri autori della sua stessa scuderia, occupando una sala su tre con un unico tipo di prodotto (e di nuovo siamo costretti a pubblicizzare la nostra inchiesta sulla distribuzione cinematografica nel nostro paese).

A cura di Adriano Boano e Marcello Testi

 

 

 


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