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Un uomo solo: incontro con Riccardo Freda
Anno: 1998
Regista: Mimmo Calopresti;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 22-11-1998


Riccardo Freda
Visto al

      Un uomo solo:
      incontro con Riccardo Freda

Regia:Mimmo Calopresti
Fotografia: Paolo Ferrari
Montaggio: Massimo Fiocchi
Suono: Gianluca Costamagna
Interpreti: Riccardo Freda, Stefano Della Casa, Mimmo Calopresti
Produzione:Scuola Nazionale di Cinema, Via Tuscolana 1524, 00173 Roma, tel.06-722941
Formato: Betacam
Provenienza: Italia
Anno: 1998 Durata: 45'


    Il fatto che io sia giovane non vuol dire che sia contento di questo".

    Detto da un vecchio di quasi novant'anni, che s'inoltra nella sala seguito da una telecamera della Rai, crea già l'atmosfera informale dettata dalla schiettezza di Monssù Pelicula. Riccardo Freda è preceduto dal suo caratteraccio, si vede dall'espressione del suo volto che ancora adesso non si lascia sfuggire occasione per lasciar cadere come macigni i suoi giudizi sui personaggi che hanno fatto la storia del cinema. Dietro di lui arranca sollecito come un nipote affettuoso Mimmo Calopresti che ha offerto la sua regia all'amico Steve Della Casa: è lui, il divulgatore del recupero del cinema popolare italiano, che ha voluto questo omaggio e si nota dall'aria da discepolo adorante che assume nel film quando pone le domande al maestro, spesso ripreso in una posa assorta, come a rammemorare ...

    Si schierano sotto lo schermo, ma vengono assorbiti da questo per il tagliare corto del festeggiato (nel film dirà dall'interno del Centro Sperimentale che a scuola non si fa il cinema) e dai suoi lucidissimi ricordi: la madre, spettatrice appassionata chiamata dai conoscenti Madama Pelicula per la sua assiduità, che all'inizio del secolo doveva contrattare con il terribile rampollo la visione dei film, lei amava la Bertini "che a me faceva vomitare. Io amavo le cavalcate e i film con Pearl White"; l'aneddoto di Rina Morelli che non si decideva ad aprire il portone e i cavalli erano già a tre metri, episodio documentato durante l'esposizione da uno dei tanti spezzoni montati alternati al suo vecchio volto e con la voce didattica di Steve, il quale tenta di trovare conferme alle sue ipotesi critiche, sempre rintuzzate dal mitico regista, impegnato a comunicare l'estrema facilità con cui lui realizzava i suoi film: "Io l'ho fatto solo per i soldi", "S'impiegava mezza giornata a fare un'intera sequenza", "Non importa dove metti la macchina, quello che è basilare è la storia". Laconicamente alla curiosità dello studioso di cinema riguardo al motivo per cui il personaggio meglio scolpito fosse sempre il cattivo Freda risponde: "Perché lui è il perno della storia". Vecchietto canzonatore: Steve prepara il discorso con un lungo spiegone sul fatto che usa pochissimi piani sequenza allo scopo di chiedergli conto di quello che appare in Beatrice Cenci e lui di rimando: "Sarò stato ubriaco".

    Apparentemente spocchioso per quella sicumera che gli consente di asserire: "Gli americani poveretti sono negati per il cinema". In realtà questa sua convinzione prende spunto dall'esperienza; gli americani stessi lo chiamavano per realizzare le sequenze di movimento ed in effetti le sue corse di bighe o i duelli all'arma bianca da lui ripresi sono insuperabili. E si contestualizza quella sua affermazione quando rende omaggio a John Ford: "L'unico che avrei voluto imitare, perché gli altri li ho visti girare" (e viene inserito uno spezzone da Directed by John Ford di Bogdanovich, quasi a voler assimilare l'operazione a cui stiamo assistendo all'omaggio fatto dal regista americano al padre del western).

    Ma davvero spietate sono le opinioni sui colleghi italiani, che erano tutti ipocritamente amici (e da questa ipocrisia non si chiama fuori neanche lui): "Rossellini: simpatico, ma poverino era negato per fotografia e tutto il resto... Gli andò bene che azzeccò Roma città aperta. Poi non mi poteva vedere perché gli avevo rovinato tutto: dopo i miei film di avventura, nessuno voleva più saperne di neorealismo". Matarazzo è ridotto ad una macchietta di ipocondriaco, morto di paura di non avere nulla; esilarante la rievocazione cinica della sua telefonata alla madre, felice della diagnosi medica: morto mentre lo annunciava. Girotti angosciato dalla luce che dava un effetto strano sulle sue cosce.

    Quando parla di fotografia il vecchio scultore diventa serio ed elogia Bava, che poteva fare qualunque cosa; poi confessa la sua predilezione per il bianco e nero, perché il cinema nasce in bianco e nero e dunque quello è il vero cinema. "Però lavoravo volentieri anche a colori".

    Lungo i suoi 72 film compaiono film di ogni genere: il suo Vampiri è il primo film italiano del genere horror ("Fu una scelta casuale"), ma collocato a Parigi, perché ambientarlo a Roma ti riderebbero tutti dietro. Maciste aveva la fortuna di essere Gordon Scott, ma solo per la presenza fisica. Poi evoca gli attori da lui lanciati, irriconoscenti, ma esalta Rodolfo Valentino, perché sapeva muoversi.

    E se ne va con un ossimoro, che riassume l'ambiguità di un regista che ha fatto grande il cinema popolare proprio attraverso le sue mille facce: "Non mi sono mai messo su un piedistallo. So solo che in Italia ero il migliore".