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Pickpocket
Anno: 1959
Regista: Robert Bresson;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 29-12-1999


Ricorrono in tutto il cinema di Bresson due concezioni del tempo. Una progressiva, lineare, anche se fatta di linee spezzate (ellissi, azioni interrotte, seguite attraverso particolari secondari), che corrisponde grosso modo al racconto e alla sua scansione, arricchendosi della recitazione, della scenografia e quant’altro. Poi c’è una temporalità più complessa, fatta di "profondità", come uno scavo di ognuno dei momenti che si succedono nel racconto. A noi queste due temporalità si presentano nello stesso istante, ma una la leggiamo fra le ordinate del racconto e l’altra la inaquadriamo nelle ascisse dell’universo diegetico. Qualcosa di più.

Così ci ricordiamo che la vicenda del borsaiolo è fatta di una linea che lo conduce alla perdizione (salvo redenzione finale, tutta intellettuale, però, perché non prescinderà dalla necessità di scontare la pena in galera), fatta di tappe progressive. Ma è anche fatta di istanti astratti. Di scampoli che hanno valore di eternità uno per uno. Le sequenze dell’addestramento al borseggio tendono a illustrare uno scopo finale, e il progressivo perfezionamento di chi aspira alla padronanza di quelle capacità. Ma mostrano anche la poesia di ognuno di quei tentativi, tutti diversi e tutti uguali, come momenti privilegiati. (allo stesso modo le campane delle pecore, nell’agonia di Balthazar, suonano tutte uguali e tutte diverse, questione di pertinenze; e il tempo in cui l’asino muore potrebbe dilatarsi all’infinito: il suo concenuto concettuale è sempre solo quello, ma la sua espressione è fatta di istanti e suoni ogni momento diversi, tutto sta nello scegliere — oignuno la sua — la propria unità minima distintiva).

Il discorso allora diventa un’astrazione sul gesto, sulla mistica della perfezione dell’esezcuzione. Astrazione che muove dall’estrema concretezza di un découpage tutto basato sul dettaglio ravvicinato, sul ritmo visivo dei gesti, dell’utilizzo di strumenti da taglio o di accessori come il giornale per compiere i borseggi. E che cosa c’è di più ripetitivo, nella vita delle persone, delle corse in metropolitana? Solo l’estremamente concreto può portare all’astratto. E siamo così al governo totale della materia da parte del regista, il cui liunguaggio si avvicina a quello dell’animazione certosina di Alexeieff.

Addirittura si potrebbe dire che lo schermo stesso incarna funzioni diverse. Da luogo di avolgimento dell’azione si fa soggetto esso stesso, soggetto di trasformazioni continue, senza soluzione di continuità, almeno nelle sequenze dell’addestramento. Nei fotogrammi in cui rapidamente scorrono tasche, mani, borselli, giacche, paletot e giornali a ripetizione c’è iterazione, ma c’è anche un uso dilatato e esibito della dissolvenza. Bresson probabilmente lo usa un po’ fuori moda (con la Nouvelle Vague assisteremo a un suo ricupero con altra funqione). La superficie dunque si trasforma, rende più significativo il gioco dei dettagli che non il personaggio, che pure, oltre ad agire come un automa (il modello) narra di se stesso con consapevolezza (ma Paul Schrader faceva notare che proprio il raddoppio della voce diaristica narrante — nel "Diario di un curato di campagna" come nel "Processo di Giovanna d’Arco" oltre che in Pickpocket — sovrapposto alle relative sequenze tende all’astratto trascendentale).

Che cosa significa per noi, per l’interpretazione? Da qui in poi il gioco è libero. Come dice Pier Vincenzo Mengaldo ("Giudizi di valore", Einaudi 1999), riprendendo il concetto da Fortini, l’interesse della critica sta non tanto nella mediazione fra opera e lettori, ma piuttosto, con Fortini, "fra l’opera e quel che l’opera non è". Cioè fra quello che dice l’opera e ciò che aggiungiamo noi. Gli atti, scampoli di atti, la loro successione sono ritenuti più significativi della rappresentazione psicologica del personaggio, e contano anche più del simbolismo. Vorrà pur dire qualche cosa? Pessimismo, certo, gli uomini che sono "agiti" invece di agire. Ma ancora, da dove viene questa loro abdicazione? Dall’interno o dall’esterno? Qui sta appunto l’interpretazione.