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O rio do Ouro
Anno: 1998
Regista: Paulo Rocha;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Portogallo;
Data inserimento nel database: 26-11-1998


O Rio do Ouro
Visto al

      O rio do Ouro

Soggetto e Regia: Paulo Rocha
Sceneggiatura: Paulo Rocha, Claudia Tomaz
Fotografia: Elso Roque
Montaggio: José Edgar Feldman
Costumi: Manuela Bronze
Scenografia: Alberto Péssimo, Jorge Gonçalves
Suono: Nunno Carvalho
Interpreti: Isabel Ruth, Lima Duarte, Joana Bàrcia, João Cardoso
Produzione: Suma Filmes, Rua Filipe Folque 49, 1500 Lisboa tel. 351-1-3159065
Formato: 35 mm.
Provenienza: Portogallo
Durata: 103'
Anno: 1998


"Tutti tornano sempre al principio", dice Antonio sul fiume, prima del poetico (e romantico, in termini letterari: una sensibilità molto frequentato dalla cultura portoghese, come testimoniano opere di Oliveira quali Francisca) incontro con il fiore, che lo apostrofa: "Antonio cosa cerchi?", insufflandogli il bisogno di una donna, di una famiglia. Quella frase iniziale conferisce un significato ulteriore all'intero film: la funzione della natura nel fare giustizia della vecchiaia ("Sei troppo vecchio, Antonio", ripete più volte la moglie Carolina). E così sull'onda dell'emozione poetica del fiore si giunge ad un matrimonio da favola, non per sfarzo, ma per atmosfera quasi onirica: veloce, con luci e ombre, come nelle fiabe, dove ci sono quelli che portano malauguranti profezie tra gli altri che gettano petali di rose; spasimanti respinti e salvataggi da affogamento nefandi, che portano solo al destinale compimento della folle visione, che spaventa Zè sul treno, un fato folgorante le vite di tutti, già contenuto nella fase: "Ho visto un'ombra fare cenni alla morte". Forse il destino è pilotato dalle nostre visioni, che fanno sì che si avveri un incubo intravisto nell'incontro tra una collana e una donna fatale.

A partire dal bellissimo siparietto dedicato alla canzone del cieco dentro alla stazione, in cui il tempo è imposto dal brano dai movimenti lenti del bardo verso l'uscita, tutto scorre verso il baratro, compreso nelle canzoni del fiume, incarnate da Melita. Ella nei momenti clou del film canta "Catena di oro e di sangue", materializzata dalla maledetta collana trafugata in treno. L'atmosfera magica e giocosa dell'inizio diventa gradualmente sulfurea, acquisendo i toni di quel surrealismo lusitano, che confonde il passato con il futuro, facendo avvenire proprio ciò che si teme di aver già visto: "Alla fine il tempo rovina tutto", dice Zè, e Melita:"Non voglio saper il futuro, mi basta sopravvivere".

Con la festa popolare, quasi un sabba con falò poco demoniaco e molto rassegnato agli eventi, precipita la follia di Carolina, sposa attempata e infedele di Antonio, la quale lega Melita ad una sedia e poi dà sfogo alla follia del dolly scatenato in un tripudio di pastelli al tramonto con primissimi piani lontanissimi dal realismo, avvolti dalla canzone nei toni più dorati possibile, fino al compimento della profezia con la variazione nei ruoli dei protagonisti dell'imbrattamento rituale delle pareti con il sanguedella vittima sacrificata al fiume.

Ma il fiume non è sazio: inghiottirà Melita e Zè in una sequenza degna di un Jean Vigo pessimista, riunendoli teneramente nell'alveo che ospita nella loro auto finalmente la pace. Lo spirito del fiume e l'amore caldo contenuto in esso è raccontato con trasporto mai retorico o didattico, abbandonato all'incanto delle immagini fluviali del Norte: calme, riposanti e assolutamente folli, infide.