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Himalaya
Anno: 2000
Regista: Eric Valli;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Nepal - Francia;
Data inserimento nel database: 10-12-2000


Himalaya

 

Himalaya


regia Eric Valli
sceneggiatura e dialoghi Eric Valli e Olivier Dazat, Jean-Claude Guillebaud, Louis Gardel, Nathalie Azoulai, Jacques Perrin
fotografia Eric Guichard e Jean Paul Meurisse
montaggio Marie-Josèphe Yoyotte
décor Jérôme Krowicki
suono Denis Guilhem - Denis Martin
musica originale Bruno Coulais
costumi Karma Tundung Gurung e Michel Debats
interpreti Thilen Lhondup (Tinlé), Lhapka Tsamchoe (Péma), Gurgon Kyap (Karma), Karma Tensing Nyima Lama (Norbou), Karma Wangiel (Passang)

produzione e distribuzione
Jacques Perrin

 

 

Il colonialismo ha avuto storicamente molti volti: quello britannico, brutale nella conquista e poi versato a collaborare con certi settori della popolazione occupata, fingendo di mantenere intatte le strutture locali, infiltrandosi nella società e condizionandola dall'interno; quello olandese e portoghese, dedito allo sfruttamento, alla deportazione, alla depredazione (vedasi i film di Sarah Maldoror o Rostov/Luanda); quello italiano, straccione, fascista, la cui inadeguatezza produsse ridicole campagne, feroci persecuzioni, criminali usi di gas e nel momento della decolonizzazione ha lasciato territori depauperati più di altri colonialismi (Adwa); quello francese, che dovunque ha cercato di sostituire la propria mentalità a quella autoctona, considerandola inferiore sotto ogni punto di vista (Camp de Thiaroyé). Eric Valli è francese.

Non è certo uscito dalla Battaglia di Algeri, è più subdolo: ha un metodo molto simile a quello degli antropologi. Ha passato due anni in Nepal, sua passione che ha già ammannito al pubblico Sette anni in Tibet attraverso la regia dell'amico Annaud, di cui si sentono echi nella grandeur con cui si affronta l'impresa, guarda la materia del suo film privilegiando lo sguardo del bambino predestinato, quasi che egli stesso volesse farsi passare per neofita di quel mondo e disposto a farsi indottrinare ed in questo modo pone nella medesima condizione lo spettatore, davvero digiuno di spedizioni di sale in cambio di grano e bombardato da immagini di un nitore affascinante, accompagnate dalla musica melliflua; appunto la musica è il primo campanello di allarme: l'ha scritta un francese, simulando le armonie himalayane, difatti se le si dà peso si notano le falsità, le edulcorazioni, e allora poi queste si estendono a tutto il resto del testo. Infatti, senza quella analisi della fase successiva all'acquisizione dei dati che ogni antropologo accumula acriticamente per poi studiare la comunità oggetto del suo lavoro, vengono assunte come oro colato asserzioni farneticanti che in bocca a un qualsiasi Wojtila farebbero inorridire non solo Bobbio persino in periodi oscurantisti e controriformisti come questo; e allora chi si lascia distrarre dal sublime paesaggio montano ascolta senza battere ciglio cazzate tipo: "Un capo comanda i suoi uomini, ma riceve gli ordini da Dio", oppure affermazioni degne del Roi Soleil, che avranno riempito di orgoglio francese Valli: "Il consiglio sono io"; l'invasato capo arriva addirittura a imporre un impegno preciso ai suoi accompagnatori: "Dobbiamo riuscire". E riusciremo. Il problema è che la regia si schiera evidentemente con il vecchio despota: lo ammira attraverso l'acquiescenza dei suoi parenti e sudditi: "Un popolo non vive senza un capo, né una donna senza il marito".

Ma sono solo infortuni collaterali di abituale fascismo, punte di iceberg che denunciano il carattere dell'intero impianto, molto più pericoloso in quanto sotteso al lavoro intero, ma in profondità e dunque meno individuabile, che si regge sulla precisa volontà di esaltare la cultura descritta proprio per i suoi caratteri primitivi, purtroppo però quella che emerge è la cultura che l'europeo si aspetta di incontrare e non si accorge di tratteggiare un racconto etnologico nel quale si affastellano tutti i tropi occidentali, al punto che molti l'hanno definito un western (La Stampa titolava la recensione: "Sfida selvaggia sull'Himalaya"). Non è vero, perché, per quanto traspaia la lotta di Wayne vs. Clift nel Red River di Hawks, manca il contrasto: il duello tra i due nepalesi di generazioni diverse non si fonda su un conflitto o sull'innovazione contro la tradizione: entrambi sono parte della conservazione, tutt'e due fanno parte di uno stesso disegno, che giunge a plaudere alla disobbedienza alle disposizioni rituali, anzi a prevederla come parte essenziale della realizzazione del ciclo epico. Il passaggio di consegne deve avvenire attraverso un conflitto edulcorato e pilotato dal riconoscimento dell'identità tra il vecchio e il giovane, sancendo l'impossibilità del cambiamento a conferma della tradizione, legittimando la disubbidienza, in questo modo disinnescandola, dopo aver connotato negativamente ogni più piccola ribellione, salvo poi recuperarla nella riconciliazione finale affidata nuovamente alla natura, attraverso la riproposizione dei rapaci che si affacciano sullo schermo nei loro lunghi giri in attesa delle carcasse che il ciclo della vita fornisce loro attraverso un rito funebre che smembra il cadavere offrendolo già frollato ai pennuti. Purtroppo nel film questo, che per la nostra sensibilità sarebbe un feroce atto impietoso, diventa momento di sublime poesia, tradendo l'approccio meno ipocrita che ci si poteva aspettare.

Stesso piglio si avverte nella descrizione affrettata dei riti narrati all'inizio senza approfondimento: "Quanto tempo si deve restare morti?" è una domanda di Syrené che fa parte del momento iniziale del film, quello più etnografico, dove si lascia maggiore spazio agli oggetti che spuntano da dietro la polvere mitica degli yak di ritorno dalle miniere di sale: allora vediamo oggetti, coperte, gesti legati ai riti funebri (imposti dalla improvvida scorciatoia del figlio di Tinlé, perito nella stessa impresa che al padre, altrettanto cocciuto e avventato, ma più fortunato, invece riuscirà): una prassi che privilegiando dapprima i riti sottolinea un iniziale approccio di carattere geografico-antropologico, quasi un tentativo di orientarsi seguendo la prassi di sacralizzare i luoghi attraverso i riti, consapevoli che il tempo della narrazione è sacralizzato dal mito, a cui si concede di dipanarsi dopo aver localizzato la storia con un forte condizionamento agiografico-mistico dei luoghi. La somma dei due è nell'affresco: l'armonia è sintonia con la natura ("La montagna ci riconoscerà", dice il capo che ha un dialogo privilegiato con il sale che crepita, con le stelle che guidano...), ma anche corretto equilibrio di rito e mito e questo è retaggio del récit ebraico-cristiano.

La figura del bimbo funge da catalizzatore: tutto converge su di lui nella sua semplicità e viene reso cinematografico attraverso il filtro del suo sguardo, anche quello che poco importa al protagonista, ma molto al gusto glocalizzante occidentale, perciò i suoi occhi sono forzati a spalancarsi sulle meraviglie naturali (senza più riconoscere differenze tra le montagne come un qualsiasi turista), estatici come in una concentrazione buddista, ma chiusi ad affabulazioni più diradate ed essenziali. Lui consentirà al nonno di rimanere a morire dove preferisce dopo aver concluso il suo ciclo, sancendo la sua crescita e la sua prima disposizione da capo, guardando da condottiero, come sarà stabilito dalla sua salita sull'albero della lungimiranza, dapprima nell'affresco e poi a partire dalla profezia trasfigurandosi nella realtà; persino il momento emozionante del passaggio lungo il sentiero scosceso, che ripete fedelmente tutti i canoni visti in miriadi di film occidentali, compresa la frana che occlude momentaneamente il passaggio, diventa puro cinema d'intrattenimento attraverso l'emozione che prova il ragazzino e solo in seconda istanza attraverso la brutta esperienza dell'altro elemento della famiglia tenuto a crescere: il lama messo costantemente alla prova per essere all'altezza del duplice compito, quello di officiare il servizio funebre del vecchio padre e di realizzare l'affresco.

Quest'ultimo è un altro elemento da valutare con attenzione per lo sviluppo mitopoietico del racconto: si sente bisogno prima del quadro o prima del mito? La spedizione di Norbou è sollecitata dal bisogno di trovare colori più adatti al Buddha: "Il blu non è brillante come quello di ieri. Ritrova quella lucentezza" è l'esortazione del maestro al momento dell'apparizione nel plot del figlio più giovane di Tinlé, dedito alla meditazione (non per vocazione ma per secondogenitura), e allora s'insinua nuovamente il dubbio: il lama è coinvolto per apportare il tocco meditativo, oppure perché non suggella il mito, ma lo crea, realizzando l'affresco? Nella seconda ipotesi ci troviamo semplicemente a officiare nel chiuso della sala cinematografica a un rito buddista di perpetuazione del trapasso dei poteri dinastici, celebrato per avvicinarci all'armonia dei colori di Buddha, mentre nel primo caso l'operazione è meno misticamente pericolosa, ma più artificiosa nel suo affastellamento di tutti gli stereotipi che possono giocare un qualsiasi ruolo nella creazione del mito, che si conclude altrettanto pericolosamente con il conseguimento del solito equilibrio: "Ogni cosa è a posto, per una volta non intervenire", dice proprio Norbou al padre, indignato perché Karma (nome casuale per un capo?) sta scopando Péma, la vedova di suo figlio, inconsolabile ma anche unica gnocca del villaggio (e attrice professionista, già nel film di Annaud) e soprattutto utile per sancire il primato del nuovo capo, in barba a qualsiasi pan-femminismo: il vincitore si fotte le donne migliori. Il timore è che la pellicola sia un connubio di entrambe le intenzioni - collocare la meditazione religiosa al servizio del potere o immaginarla creatrice del récit col quale perpetuarlo - un duplice flusso confermato dall'episodio clou del sentiero scosceso, scelto in seguito a un'azzardata frase del religioso: "Scegliere sempre il sentiero più arduo". Da metafora ridiventa scelta letterale, ribadendo esattamente i due poli che si alternano nel film. Infatti tutto trascorre nel movimento che unisce l'educazione di Passang - quando assume questo nome, non è più il bambino Syrené, attraverso cui passano tutti gli insegnamenti molto didattici rivolti al pubblico (in Francia si organizzano molte esiziali proiezioni riservate alle scuole, che perpetuano i danni del colonialismo transalpino) - al ritorno di ogni elemento nell'affresco (e di nuovo c'è un parallelo in negativo alla prassi narrativa di Adwa) che viene dipinto durante il viaggio, costellando la montagna di infiniti tasselli imperituri, dove l'arte ha funzione di conferma dello status quo, e infine il lavoro artistico ci viene mostrato come completamento del disegno dinastico divino, fluendo attraverso tutte le tappe a cui abbiamo assistito in un'unica panoramica che lo percorre fino a quell'albero alluso in una prolessi insistita che unisce il percorso che fa capo al bambino predestinato (la cui lungimiranza da conducator si misura proprio con lo sguardo consapevole da un'altura o dalla cima di un albero), ricollegandolo a quello mistico del racconto per immagini con i colori finalmente adeguati, sincresi di mitopoiesi e vita quotidiana in quella cornice di monti stucchevole, ancorché ripresa nella furia della tempesta o sotto una calotta di stelle che lascia senza fiato, ma non richiede alcuno sforzo, nemmeno quello del trekking.

Forse quell'ottenimento di una soddisfazione per gli occhi senza contropartita annulla il piacere dell'ammaliante musica, rifatta su canoni d'ambientazione occidentali, sfoderata su luoghi, ritagliati troppo precisamente in modo da eliminare elementi di disturbo, alternando sapientemente panorami e volti di terracotta con rughe ancestrali e fessure oblique come occhi; il tutto è troppo studiato per non apparire artificioso fin dalle primissime immagini, un po' confuse dalla polvere sollevata dagli yak da un lato e dagli umani dall'altro che si accalcano ad assistere al prologo del dramma: l'arrivo del cadavere del figlio di Tinlé. L'approccio non poteva essere più mitico e con l'evidente intento di collocare in una dimensione lontana - quasi leggendaria - la vicenda: il mondo di riferimento appare gradualmente al sollevarsi della polvere prodotta dagli zoccoli degli yak come un sipario, il suo esotismo è pressoché fiabesco e quelle prime immagini sorprendenti preludono ad altri punti di vista, spettacolari, ma privi di senso, se non con scopo spaesante, per far permanere la sensazione di trovarci al cospetto di una realtà da sogno e non di fronte a una cultura di cui sarebbe il caso di avere maggiore rispetto, evitando di semplificare troppo i suoi riti. La soggettiva del cuore-bersaglio, centrato da Karma, la passerella ripresa da sotto mentre transitano gli yak, il rito funebre seguito nelle sue immagini più godibili, ma non nel dettaglio dello smembramento, le riprese dall'alto a rimpicciolire gli uomini al cospetto della montagna: immagini che risultano o prive di significato nella scelta del taglio, oppure infilate per scandire tempi che si dilatano alla ricerca del respiro delle montagne, con l'ossessione di insufflarci la europeizzata versione eidetica dell'oommmmm tibetano, trovando in questo sforzo soltanto un surrogato da agenzia viaggi: aderendo all'offerta tutto compreso sperate solo di non trovare un capo come Tinlé, sennò la vacanza diventa un incubo: "Quando grida così, uomini e bestie chinano il capo e camminano". Stessa banalizzazione si trova nelle grida che annunciano un evento che sta accadendo sotto gli occhi di tutti: l'arrivo di un viaggiatore, le azioni più palesi sono replicate da urla che le sottolineano in modo da attirare l'attenzione degli astanti, rendendo il momento un istante epico, perché condiviso da tutti. Un atteggiamento teso a ribadire l'evidente perché diventi occasione di consenso attraverso la sua registrazione come patrimonio comune; però annotato in quel modo sembra quasi voler mettere l'accento sulla elementarità del mondo di quelle popolazioni.

E allora sorge spontanea un'ultima domanda: solo la sintonia con il Buddha consente di dipingere un albero, se non lo si è mai visto. Ma come si fa a descrivere la cultura Dolpo se non siamo nepalesi? Non risulterà un dinastico albero carolingio? Dobbiamo convertirci tutti, venendo meno alle più elementari regole dell'antropologia?