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Baise moi - Scopami
Anno: 2000
Regista: Virginie Despentes; Coralie Trinh Thi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 21-12-2000


Baise-moi

 

Baise-moi


Scopami


Fick mich


Fuck me

regia Virginie Despentes, Coralie Trinh Thi
dal romanzo di Virginie Despentes
pubblicato da Einaudi, stile libero.
fotografia
Benôit Chamaillard
montaggio
Aïlo Auguste, Francine Lemaître
suono
Eric Boisteau, Jacques Sans
musica originale
Varou Jan
decor Irene Galitzine
costumi
Isabelle Fraysse, Magali Baret
interpreti
Raffaela Anderson (Manu),
Karen Bach (Nadine)
produzione pan-européenne
distribuzione Lantia, via Corridoni, Roma


 

 

A luci rosse, non in senso pornografico: non c’è nulla di arrapante, almeno non per i maschietti, costretti a tacere di fronte alla nostra stessa violenza solo in minima misura restituita da due vindici della sciovinistica prevaricazione secolare, al punto che anche i fallocrati più brutali, autori dello stupro iniziale non traggono piacere dalla passività strategica di Manu ("È come parcheggiare l'auto. Non posso impedire che forzino la mia figa: ma non ci lascio niente di prezioso"), per nulla umiliata dalla loro scarsa fantasia sessuale; anima gemella di Nadine, solitaria spettatrice assidua di film pornografici, senza bisogno di un fidanzato con il quale assistervi, estrema rivendicazione di una sessualità fuori dai canoni e lontana dalle pretese reificanti degli uomini.
A luci rosse per la dominante cromatica centuplicata dal laser alla ricerca spasmodica di una vittima da immolare, perlustrando tutto lo spazio, sempre soffocante per l’incombenza dei confini dell’inquadratura, occupata da volti minacciosamente protesi a occuparlo integralmente o delimitata da pareti che si "allargano" soltanto con l’azione del grandangolo quando si scoprono i cadaveri riversi in posizioni molto plastiche, quasi che siano risultato di sparatorie televisive. E qui si nota uno scarto tra i momenti precedenti l’azione, iperrealistici ma naturali, quelli delle stragi che usano una sorta di stop motion alla Wong Kar Wai o il rallenti andando rarefacendosi fino al fermo di fotogramma, ripetuto in rapida successione per documentare il risultato della strage nel club privé, e infine la stasi successiva con l’attardarsi delle giustiziere intorno alle salme, poi abbandonate in un’ultima immagine che chiude la sequenza, questa sì seriale, poiché si ripete sempre seguendo la stessa struttura, attratte da una spirale che conduce a scegliere obbligatoriamente il "salto senza elastico", motto che consente di sopportare il destino preparato loro, immaginando di suggerire i titoli per i cubitali del giorno successivo alla loro cattura in sostituzione della retorica giornalistica, nobilitando in questo modo l'impresa.


 

A luci rosse per la dose jazzistica di spunti lisergici, soprattutto nell’esordio popolato di personaggi della banlieu lionese: spacciatori, skinheads in azione, gangsta neri che ci minacciano avvicinandosi pericolosamente all’obiettivo-cinepresa-ragazza, gli scontri verbali – e fisici – si inseguono a ritmo incalzante amalgamando una galleria di dropout attraverso rapporti rigorosamente a due, una sequenza conclusa dallo stupro che termina anche le note jazz per lasciar spazio al punk francese, secondo momento di branco dopo il pestaggio dell’amico di Nadine. Anche la struttura duplica queste relazioni privilegiate tra due personaggi, a cominciare dal fatto che l’uomo di Manu viene ucciso per strada sotto le finestre dell’albergo dove è lei in un'esplosione di luci rosse: spesso si inseriscono montaggi paralleli, quasi che anche a distanza le due ragazze uscite dai canoni comuni di convivenza comunichino, uniformando i propri comportamenti – ovviamente sessuali, visto che quell’ambito è l’oggetto della critica della microfisica del potere maschile considerata – e rendendoli rivoluzionari rispetto all’impostazione incentrata sulla sopraffazione fallocentrica: infatti in quel modo codificano nuove "regole", così liberate da qualunque criterio da risultare connotabili come punk, a partire dalla consapevolezza che la propria ribellione si produce inanemente contro l'educazione ricevuta che in qualche modo condiziona i propri comportamenti, sanzionandoli e inibendoli; con questo film si tenta di superare le remore culturali, disperando in partenza della riuscita. È a tal punto un universo "indescrivibile" secondo i parametri comuni che sentono il bisogno di dotarlo di dialoghi adeguati, che nobilitino quelle morti e a questo proposito prendono ad esempio Thelma e Louise. Ma solo per il criterio che informa la narrazione di tutti i migliori topoi del road movie: cameratismo, eccitazione per assenza di regole, un traguardo del viaggio (l’incontro prima del 13) che è puro pretesto, perlustrazione del territorio attraverso un codice, in questo caso legato al sesso, a tal punto senza regole, che qualsiasi protezione è bandita e punita in sfregio a qualsiasi cautela (l'accanirsi con i tacchi a spillo sul malcapitato puttaniere, che ardisce brandire il preservativo). In questo un omaggio all'estremismo punk in virtù dello scarso valore assegnato a una vita da trascorrere nella soffocante normalità che spegne, scelta viscerale quanto il pensiero di sentirsi donne passando attraverso la propria identità sessuale ed in questo modo si innesca il processo prima di tutto mentale di liberazione dalle certezze maschili e dalle weltanschauungen provenienti dalla prospettiva del "cazzo", producendosi in folgoranti battute ironiche, eppure veritiere che svelano l’evoluzione dei personaggi: "Sei fortunato che ho un orgoglio femminile". In assenza delle battute che normalizzano la situazione attraverso i riferimenti filmici si affacciano incubi come la strage nel club privé – altrettanto metalinguistici – che sopperiscono alla mancanza dei dialoghi con un esorbitante presenza di grottesco e di citazionismo; al contrario il confronto dialettico (con il fratello della ragazza assorbita nella loro sfera d’azione al posto di blocco forzato) sfocia in rilassate e altrettanto improvvise isole di senso depositato in un sistema narrativo inatteso: da un lato – quello dal loro punto di vista – introspettivo ("Non abbiamo alcuna attenuante"), attonito dall’altro, quello di persone meno condizionabili dagli organi informativi che prendono atto della normalità delle due ragazze, non vittime né carnefici, ma semplicemente parte di un ineludibile meccanismo che sposta le loro esistenze in un piano indicibile: "Vi avessi incontrate, non lo avrei mai detto", ammette il giovane che le ospita, ribadendo uno spaesamento che è anche quello dell’intellettuale assalito nella sua villa ("Vi immaginavo diverse: lei non assomiglia a nessuno"), completando la carrellata di maschere da indicare come nemici, alieni all’universo esclusivo creato dal loro sodalizio, per i quali assumere un atteggiamento di indifferenza attiva che si manifesta con l’eliminazione. Sono tutti caratteri entomologicamente classificati da 25 anni di punk come tipologie minacciosamente estranee, perché assomigliano a qualcuno, sono riconducibili a modi di vivere e pensare massificati: infatti contro questi si accaniscono maggiormente le due vindici.


A luci rosse, in quanto film a tesi debitore delle grandi tradizioni di trent’anni fa: le amazzoni di Russ Meyer incrociano le atmosfere peccaminose e provocatorie di Melvin van Peebles. Nadine non a caso è molto somigliante a Pam Grier da giovane a confermare l’attenzione per un certo poliziesco scanzonato e che fa del realismo una base per scardinare la realtà e reinterpretarla, spostando le protagoniste in un mondo alternativo che sottostà soltanto alle loro nuove regole, a metà appunto tra la blaxploitation e l’atmosfera fumettara dei film di Russ Meyer, conditi dal nomadismo tipico del road-movie la cui prima tappa conduce al mare, dove le ragazze si "riconoscono" uguali, complici, grazie ai suoi spazi liberi; i suoi flutti non sono quelli poetici di Ferreri o quelli sullo sfondo dei quali Kitano ambienta i suoi divertenti giochi puerili, forse si apparentano all’inquietudine di Borowczyk: dentro ogni onda di quella inquadratura marina che riempie lo schermo della fuga delle due donne sono contenute tutte le pulsioni violente, represse, surreali e iperreali che già nel lavoro del maestro polacco erano presenti, in particolare nel racconto La Marea contenuto in Contes immoraux (1974). Non a caso un testo scritto su committenza di Breton da André Pieyre de Mandriargues; un altro aspetto che accomuna le due autrici francesi a Boro è l’illustrazione precisa dei meccanismi. Valerio Caprara descrive la sequenza cardine del racconto immorale con una frase che potrebbe fungere da didascalia anche per il muoversi sinuoso e terribile del mare di fronte alle due donne in fuga dopo il loro separato duplice omicidio: "Il mare assedia gli amanti… e nello stesso tempo offre linee di fuga infinite. L’esperienza proposta dall’uomo sta per compiersi: la flessuosa nudità dell’attrice Lise Danvers riempie di pathos il sordo ed ossessionante rumore delle onde" (Borowczyk, il castoro cinema, La Nuova Italia, aprile 1980, p.64).


 

Le luci rosse lasciano spazio a lividi colori invernali sul più classico dei laghi in una situazione epica evocatrice di cicli cavallereschi, con i corpi ormai ridotti a involucri che rimandano a personaggi mitici come in Lancelot du Lac: le situazioni, tutte ricostruite con maniacale attenzione per la correttezza della atmosfera evocata, sono rispettate con deferenza al limite del fanatismo: la giovane uccisa per la quale la compagna inventa un rito funebre rimarrà introvabile primula rossa per i bercianti sbirri che pretendono una risposta dalla superstite: "Dov’è l’altra?" è la richiesta di spiegazione che continuerà inesaudita ad aleggiare, rendendo onore alle due ragazze che hanno fatto il salto senza elastico, imponendo le loro pulsioni liberamente, purtroppo hanno dovuto sostituire la potenza del fallo con quella della pistola, protesi terribile che evidenzia la sua funzione nel momento in cui il tenutario del club privato viene costretto ad assumere la posizione pecorina a cui all'inizio era stata costretta Manu dagli stupratori, ma senza la dignità dimostrata dalla ragazza. E la pistola s'introduce nell'ano esplodendo il colpo.

Le luci rosse attirano l’attenzione sui particolari, soprattutto quelli sessuali (peni che penetrano con arroganza, mestruazioni liberate nel bidè, prestando attenzione alle funzioni del corpo femminile come già avveniva ad esempio in Rosetta che usava il phon per scaldare la pancia dolorante, sezioni di corpi…), pilotando lo sguardo. E allora si assiste alla ripresa del controllo totale di ogni parte del proprio corpo fino alla infinitesima porzione di coscia, come dal dettaglio del pene che forzava la vagina dell'amica di Manu prendeva avvio il racconto con uno stupro. I rapporti sessuali diventano tappe di un itinerario metaforico che finisce con il confondersi con il percorso del road movie verso i Vosgi: sono "viaggi" paralleli, tant'è vero che l'inquadratura in auto pressa da vicino le protagoniste, i loro capelli sono quasi tangibili dalla platea, come i loro corpi quando si muovono sinuosi nelle camere d'albergo, senza infingimenti, liberati nel ballo, negli strusciamenti tra loro appena sfiorati; si offrono al nostro sguardo non da voyeur, ma quasi da ginecologi. Forse gli unici momenti in cui si avverte il piacere fisico è quello in cui le due donne si scelgono i ragazzi, ribaltando i canoni della conquista: da ostaggi del punto di vista della sfera sessuale legataq al potere, maschile arrivano a conquistare la loro sessualità, femminile.