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Adwa
Anno: 1998
Regista: Hailè Gerima;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Etiopia;
Data inserimento nel database: 02-06-2000


Adwa

ADWA

di Hailè Gerima



Due sono gli interlocutori privilegiati di queste considerazioni sul film di Gerima: quello al quale è opportuno rivolgersi con più sollecitudine, accompagnandolo e segnalandogli unità didattiche da sviluppare non può che essere un insegnante sensibile alla possibilità di offrire ai propri allievi supporti audiovisivi che possono scatenare confusioni nelle menti condizionate dai libri di testo confezionati sulla scorta delle convinzioni di Montanelli e di quella cultura profondamente coloniale nell'animo, che nega le brutalità italiane appellandosi alla favola del buonismo nazionale; a questi ultimi è giusto prevedere di dedicare l'altra sponda su cui fondare l'interpretazione di Adwa.

All'insegnante disponibile a seguire l'indicazione audiovisiva come supporto da confrontare con le certezze del libro di testo, si può senz'altro segnalare l'impianto didattico, disinteressato a qualunque obbiettività - il giudizio proviene dall'assunto per cui si condanna automaticamente da se' qualsiasi azione coloniale - e già la cornice demarca questo atteggiamento: i due bambini che introducono e chiudono la Storia si trovano al cospetto di un affresco che ritrae San Giorgio, uno dei due ridondante rispetto alle immagini che scorrono vittoriose - come volutamente è tutto il film - descrive a parole quello che vediamo a vantaggio del compagno cieco; l'evidente metafora del pubblico da educare sembra voler mettere in scena l'interlocutore ideale di questo film. Di nuovo si presentano due ordini di spettatori a cui Gerima si rivolge: gli africani della diaspora, privi di memoria, come ciechi di fronte alle vestigia di quella battaglia tanto importante per l'affrancamento futuro dell'Africa tutta; e i giovani, tenuti a suggere quanto più possono di quella tradizione, invitati a (in)formarsi attraverso stampe e testimonianze orali. Da ciò la scelta di un'iconografia così potente e suggestiva, che riceve dall'immaginario occidentale l'episodio mitico, lo rielabora, facendolo suo e infine lo rigetta proponendo il drago sconfitto come simbolo dell'illegittima occupazione italiana. Riconoscibili immediatamente i tre colori della bandiera e poi tra le figure che popolano l'affresco la ripresa indugia sull'icona femminile calco dell'effigie dell'Italia, immediatamente connotabile.

A questo affresco popolare si affianca l'altra forma didattica utilizzata alcune volte lungo il film: la musica. Talvolta questa viene diffusa sullo sfondo infuocato di silhouette di montagne al tramonto; in quel caso appare retorica, con lo stesso valore dei canti partigiani ed infatti il testo esalta le doti guerriere degli eroi di Adwa con la stessa forza che trasmettono gli Ustmamò con I Ribelli della Montagna (possibile confronto tra espressioni canore nelle lotte di liberazione). Però' un percorso musicale originale offerto da Gerima, che potrebbe consentire uno studio antropologico delle espressioni privilegiate dalle popolazioni africane, coinvolge un interessante meticciato che combina l'uso della tradizione orale dei griot accompagnati dalla kola (lo strumento monocorde tradizionale) con la creazione di sonorità godibili universalmente, senza contare che il piglio del griot ha parentele con la mitopoiesi omerica. L'intero impianto del film ripete e inscatola all'interno di nuovi racconti con la stessa struttura la perpetuazione del racconto orale che si ripete con minimi scarti; anche in questo caso spesso vengono ribadite trame già ordite del tessuto narrativo, proprio come quando più di un testimone è chiamato a ripercorrere la memoria di un evento. Che viene inseguito nella descrizione dei fatti e nel loro elenco legato alla narrazione della battaglia di Adwa.

Dall'altro lato della funzione scolastica della musica si colloca il nostro interlocutore bianco che continua a credere nella propria supremazia e dovrebbe meditare sul canto "Respingiamoli", intonato da una "bella abissina", nient'affatto attratta dalla prospettiva di venir stuprata da un manipolo di militari italiani infoiati dotati di antiche verghe romane e sardonicamente scelta dal regista per sbattere in faccia agli arrapati italiani il suo rifiuto. Lo scherno è completato dall'orgoglio di aver dato inizio alla resistenza al bianco colonizzatore, un inizio che da Adwa arriverà fino a Biko, Mumia, Malcolm X - citato in una serie di foto di famiglia che raggruppano Sankara e Lumumba - e si torna ala figura di San Giorgio, ogni volta con un dettaglio in più, finché il drago-Babylon non verrà infilzato.


Entrambe le situazioni - la musica, non solo come sottofondo, e le stampe, non solo del drago - entrano nel gioco narrativo fatto di costanti riproposte che amalgamano il materiale montato, che alterna testimonianze e suggestioni, creando un sentiero di disegni, fotografie e sciabolate su illustrazioni, che crea un centro attorno ai prodotti ispirati alla battaglia. Il drago funziona come immaginario perché è una via di mezzo tra infiltrazioni cristiane e animismo, protagonista nel frangente legato al titanismo degli eroi, che non vengono abbattuti nemmeno dalle fucilate (lo sberleffo per i nostri campioni imbevuti di militarismo è: "Ma cosa sono queste cose che ci tirano addosso? Pulci?", frase che si rilanciavano gli indomiti guerrieri feriti dalle fucilate).

Un aspetto curioso è il ruolo giocato dagli spiriti, che in un'impostazione razionalista come la nostra non trovano dignità, ma in questo caso i vincitori sono loro ed è indispensabile accettare una mitopoiesi diversa da quella giudaico-cristiana, ma altrettanto suggestiva; essa è espressione di una metafisica che trova fondamenti in una storia evidentemente non teleologica e progressiva, tant'è vero che gli spiriti condividono il tempo presente e la stessa storia della battaglia è ancora ben scolpita nelle menti, coesiste con il tempo del film. Una sensazione questa acuita dalle testimonianze dei narratori intervistati o dislocati miticamente: si ha l'impressione che siano stati presenti, e forse è proprio così, perché la loro visione del mondo li porta a essere connaturati a tal punto con la natura ed il loro mondo da superare le barriere temporali: quei luoghi sono ricettacolo di un'unica cultura plurimillenaria che interagisce e fa scudo con i suoi rituali a qualunque invasione, chiamando a raccolta tutti i suoi spiriti a mettere in scena all'interno di un anfiteatro il loro mito fondantivo. Uno stuolo di anziani fieramente assisi, mentre la macchina da presa se li accarezza tutti fino a spingere il nostro sguardo a scoprire il parlante, raggiunto in alto a sinistra nello schermo, summa di tutte le loro storie, che sono un'unica vicenda collettiva. Infatti ogni citazione si fa risalire al massimo al genitore: un'informazione di prima mano ottenuta da chi era stato presente alla battaglia.


Il mito ha tratti tali che si arriva addirittura a dubitare della vittoria, come se il sogno si fondesse con la realtà, per dare vita al mito stesso - ma anche per accentuare l'umiliazione dell'arroganza del nemico - unico modo per cogliere davvero la portata dell'evento storico, nel quale devono trovare spazio le sincresi magiche in una più lenta sedimentazione del tempo, che ottiene come effetto di ritorno una speciale vividezza delle immagini riproposte di nuovo, traendole dalle stesse stampe sulle quali si era già indugiato. Questo andamento lento e vertiginoso consente l'ottenimento di due risultati: innanzitutto di non proporre alcuna fiction e invece di propinare ripetutamente foto e stampe con un bel montaggio che lega situazioni metaforiche, quasi teatrali, con testimonianze di presa di coscienza, un tipo di montaggio inaugurato trent'anni fa da Med Hondo (Soleil Ô), la cui affabulazione prevedeva il teatro di gesta eroiche contro la colonizzazione; qui tutto passa attraverso la parola come il rito teatralizzato che replica l'assalto di Dogali con gli stessi risultati cinetici dei movimenti di macchina con voce fuori campo che illustra e anima i disegni. Inoltre il pilotaggio dell'occhio su superfici già formalizzate agevola l'accoglimento nello spettatore che l'universo di riferimento si colloca in un'altra metafisica, dove i tempi e i modi di percezione sono diversi: più artigianali, ma dove al centro non è posta l'accezione di progresso tecnologico, che coincide con una modernità occidentale sempre alla perenne rincorsa del nuovo attraverso l'affossamento del passato.

La riproposta del materiale con un andamento sempre più stringente attorno ai punti focali che trovano un costante avvicinamento al dettaglio ha il chiaro scopo di incidere nella memoria i cenni dei protagonisti e le loro gesta. L'attenzione maniacale per la precisione delle cifre di uomini diventa una litania quasi onirica, che ci ammalia.