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L'ultima volta che mi sono suicidato Anno: 1996 Regista: Stephen Kay; Autore Recensione: Adriano Boano Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 19-01-1998
Formalmente beat. Il film di Stephen Kay consente di
"assistere" all'avvento dell'onda bebop, mentre andava sommergendo il mondo.
Thelonious Monk, rivoluzionando la colonna sonora di due
decenni, mandava le sue note a infrangersi contro il
perbenismo, commentato dalla strafottente faccia in B/N di
Neal Cassady, il nume ispiratore di Kerouac, Ginsberg,
Ferlinghetti, ... Burroughs.
Nulla sarà più
come prima.
Il point break non è tanto collocato nel
finale del film, quando i poliziotti impediscono a Cassady
di raggiungere la ragazza amata, reduce da un tentato
suicidio; è piuttosto l'improvvisa intensità
del dialogo con il collega di lavoro notturno a segnalare la
nuova percezione delle convenzioni e soprattutto
l'incomprensione dei motivi per cui si dovrebbe lavorare,
ovvero da dove trarre gratificazioni faticando. É
palpabile la voglia di non sciupare l'esistenza in una
grigia monotonia da cartolina: "La vita è adesso e
adesso è tutto ciò che abbiamo", si
sintetizza. Per comunicare questa rivoluzione e il
travolgente ribellismo di quella generation, libera da ogni ideologismo, si
adatta molto bene il bianco e nero molto contrastato,
fissato dalla ripresa oscillante a seguire il jazz che
trasuda da ogni inquadratura ancora prima che dal
soundtrack
(come in
Ascensore per il
patibolo). In
particolare è da antologia grafica l'essenziale
montaggio dei titoli che occupano strisce di schermo bianche
o nere, alternate al giovane che si agita per la stanza
decidendo di scrivere la lettera a Kerouac, il canovaccio
del film. Uno spezzone costituito da jump cuts, sequenze rallentate, zoommate
improvvise da falso filmino familiare, lunghe dissolvenze e
fermi di fotogramma: una congerie un po' esagerata, ma
incantevole.
Questa familiarità
tra i due anticipa la modalità scelta per dipanare la
narrazione. Colloquiale (apparentemente) e frantumata: non
si tratta di destrutturazione, è invece un
procedimento a fiotti che sgorgano direttamente
dall'entusiasmo irruente dei personaggi di On the road, tuttavia la sceneggiatura è
calcolata al millesimo. Kay usa l'Hollywood Flashback, citandolo esplicitamente mediante
l'espediente della voce off dell'estensore della lettera,
intervenuto a bloccare la vicenda che lo vede protagonista
(un improvviso fermo di fotogramma, come a voler fermare il
mondo per fare chiarezza nella fumosità
dell'esistenza), ciò gli permette di inanellare
episodi slegati e non diacronici e contemporaneamente compie
un'operazione filologica, facendo sentire la presenza
autoriale che regola le diverse situazioni temporali.
Altrettanto stilisticamente rigoroso è l'uso del
colore, ricalcato sulle tinte pastello da riviste
'40s.
"Ognuno ha le sue ragioni
per vivere come preferisce". Basta sia una scelta e che
siano chiari i parametri che la sottendono: la storia del
film è la presa di coscienza che le pulsioni di
Cassady lo spingevano verso la ribellione, anche se persino
lui era tentato dalle sirene dell'american way of life. La vicenda del film è il
vestito che avrebbe dovuto imprigionare l'uomo nella
banalità da cartolina ed invece lo dirotta
sulla
strada, a bruciare
la gioventù nella sregolatezza e nella vita ai
margini. Neal è speciale: è come se il
bebop si incaricasse di spingerlo lontano
dalla normalità.
L'atmosfera è precisa
ed efficace, la ricostruzione dei sordidi vicoli con i
distributori automatici di sigarette è da poster
d'epoca, il ritmo sembra dettato dalla tromba di Dizzy
Gillespie; meno evidente risulta la filosofia
beat. Probabilmente Corso, Ferlinghetti
& Co. sono ormai poco conosciuti dalle giovani
generazioni, ma sorprendente è avvertire la
difficoltà di spiegare le motivazioni del rifiuto del
lavoro, la disperazione della musica struggente di anime
perse come CharlieParker, l'originalità della
fotografia sporca, gli ambienti poeticamente fatiscenti e
saturi di fumo, preferiti ai salotti della middle class. Tutto apparentemente evidente, ma
forse non più così ovvio ed è questo a
risultare angosciante. A merito di Kay può venire
ascritta la sua capacità di rifuggire da momenti
didattici, sostituiti dalla "storia di immagini, fatta di
simboli", come rivela esplicitamente il protagonista,
riassumendo la forza dell'intero movimento nel frenetico
montaggio sui dettagli della colazione. Uno dei più
classici di questi momenti simbolici è la corsa in
auto; altro momento in cui affiora l'atteggiamento
beat è l'elegia del toast, per cui
il quotidiano si trasforma nel bello artistico, basta
presentarlo in modo trasfigurato, come avveniva ai
personaggi interpretati da James Dean (magari quando
assisteva alla crescita di una pianta di fagioli), il
rischio è che si colga come piacevole la
quotidianità tout court e non la sua trasfigurazione
e dunque si indulga a considerare desiderabile la famigliola
e la villetta a schiera.
In ospedale assistiamo alla
rotazione di novanta gradi del punto di vista e vediamo i
due volti come fossero in piedi, mentre il flashback
immediatamente successivo ci rivela come potesse essere
dirompente l'ingresso di Cassady in un ufficio, proprio per
il diverso modo di osservare e valutare le convenzioni.
Dunque anche la tecnica di ripresa si adatta al livello di
trasgressione del personaggio, impegnato a scardinare le
trappole della vita tranquilla.
Purtroppo volgendo verso il
termine il film si sfilaccia, perde il ritmo, al posto degli
episodi significativi introduce una vicenda completa,
seppure debole, ed emblematica, durante la quale si lascia
troppo spazio a Keanu Reeves, anzi si inventa di sana pianta
una situazione stiracchiata per poter legittimare la sua
presenza di richiamo. La noia e il fastidio della
ripetitività si aggiungono al senso claustrofobico
(voluto?) del bar e soffocano la freschezza, che fino a quel
momento aveva caratterizzato la corsa delle immagini.
Nemmeno la musica di Mingus riesce a riconciliarci con
questa occasione persa per proseguire nella direzione del
Naked
Lunch di Cronenberg
per recuperare parte dello spirito della beat generation. Neanche più il finale
ripreso da un dolly in un classico plongée su un
quartiere notturno (di genere e rievocativo dei film '50s)
risolleva il ritmo; rimane la notazione del ritorno del
bianco e nero a dividere i due mondi: e Neal è
emigrato nell'altro, rapito dal bebop.
Il gusto di Kay (scrittore
di piéce teatrali, come in origine è anche
questa opera) nel ricordare la provocazione degli
atteggiamenti delle origini della ribellione giovanile
riesce a replicare l'intera iconografia beat, però non restituisce le
idee, tanto che si sente il bisogno di infarcire l'epilogo
con una verbosa didascalia di Ferlinghetti, per esprimere
tutto ciò che il film non riesce a comunicare,
nonostante lo splendido lavoro sulle immagini. Probabilmente
Kay è affetto da una sensibilità al tema che
diventa improduttiva al momento di andare al di là
dell'atmosfera, oppure manca negli autori l'adesione senza
remore alla visione del mondo di quel movimento, che si
ritrova in maggior misura in una sola sequenza di Gus Van
Sant, forse meno attento alla ricostruzione fredda e precisa
dell'immagine evocatrice di quegli anni, ma capace di
restituire integralmente la tensione luciferina di
Burroughs.
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