L’occhio
che uccide. Michael
Powell. 1960. GB.
Attori: Carl Bohem, Moira
Shearer, Anna Massey, Maxine Audley, Brenda Bruce
Durata:
109’
Titolo
originale: Peeping
Tom
Una prostituta è uccisa in casa
sua mentre è ripresa da una cinepresa. L’assassino rivede il filmato
dell’omicidio. Mark Lewis lavora nel retro bottega di una rivendita di giornali
nella quale si sviluppano fotografie osé. Mark Lewis è l’assassino della
prostituta. Di ritorno a casa, dove i svolge la festa di compleanno della
coinquilina Elen, conosce meglio questa e la invita ad osservare uno dei film
che egli colleziona. Figlio di un medico geniale quanto malsano, Lewis gli
mostra i filmati che per tutta la sua infanzia, il padre ha girato su di lui.
Il giorno dopo, è sul set di un film, nel quale svolge il lavoro di operatore.
Invitata la controfigura femminile Vivian a fare delle riprese di nascosto
dalla produzione, uccide anche questa con una lama che spunta da una delle
gambe del treppiede che usa per riprenderla. La relazione con Elen continua e
questa gli domanda aiuto per scattare fotografie per un libro di fiabe per
fanciulli. L’indomani, scoperto il cadavere di Vivian, l’ispettore Gregg
incomincia ad indagare sul set e su tutti i suoi partecipanti. La sera, tornato
da un appuntamento con Elen, trova la madre di questa, cieca e con un
particolare istinto, nell’ombra della sua camera di proiezione che cerca di
scoprire quale tipo di filmati Mark ogni sera rivede sullo schermo. Colto dalla
voglia di riprendere il terrore dell’anziana donna, decide ugualmente di
risparmiarla per amore della figlia. L’indomani, sul set cinematografico,
l’ispettore decide di far pedinare alcuni membri e tra questi è scelto anche
Mark. Giunto di nuovo nel retrobottega, Mark uccide la bionda ragazza che si faceva
ritrarre nelle foto osé ma, scoperto anche questo cadavere, è immediatamente
sospettato degli omicidi. Nel frattempo Elen, entrata in camera di Mark per
fargli leggere il libro di favole per bambini, scopre un macabro filmato e così
Mark, con la polizia sotto casa, decide di suicidarsi riprendendosi e
guardandosi nello stesso specchio dove costringeva le vittime a riconoscere il
volto della paura.
Michael Powell mette in scena un
vero capolavoro del cinema teorico, indagando in quel buio spazio che è il
limite tra scopofilia (bisogno di guardare, voyeurismo) e cinema (il primo
omicidio, girato in soggettiva, precede i titoli di testa, sulle stesse
immagini dell’omicidio, ma proiettate su uno schermo). Fortemente sentito
(l’abbigliamento di Mark è stato spesso quello dello stesso regista e che, tra
l’altro, si vede per pochi istanti come il padre di Mark, il folle teorico che
studiava la paura e le sue reazioni sul sistema nervoso, sottoponendo suo
figlio agli esperimenti), il regista propone una filosofia dello sguardo non
originale (Hitchcock e la Finestra sul cortile del 1954) ma sicuramente
più moderna e cinica (“Tutto quello che riprendo, per me è perduto…”
dice Mark ad Elen; quando questa lo bacia, lui sostituisce le sue labbra al
freddo vetro dell’obiettivo della sua cinepresa). Il cinema nel cinema, così,
non è più solo un pretesto per aumentare il numero di scatole cinesi del
linguaggio visivo, è lo sguardo stesso, che nelle mani di Mark si trasforma in
osservazione maniacale di ciò che non dovrebbe essere visto, come il set di un
film, coppie che si baciano, interrogatori della polizia, nudi femminili e
volti deformati, mostrandosi necrofilo e volendo quindi guardare, riprendere e
possedere la morte. L’estetica della sceneggiatura viene incontro ad una
sottile carenza dell’estetica visiva del film vero e proprio, ed i giochi di
sguardi nella rivendita di libri, quando entra l’anziano signore che vuole
acquistare fotografie proibite, sintetizzano il rapporto che s’istaura tra
regista, macchina da presa e spettatore (come la scena in cui Elen guarda per
la prima volta i filmati di Mark mentre lui guarda lei, una scena che è
riproposta nella stessa formula durante i preliminari del secondo omicidio,
Mark che dice a Vivian “Riprendo te che riprendi me”) nel quale il
regista decide di prendersi gioco proprio dello spettatore, non facendogli
vedere il cadavere ritrovato di Vivian o il filmato che spaventa Elen nella
scena finale. Mostrare, non mostrare, mostrarsi e guardare, non guardare,
guardarsi. La paura dello sguardo, è soprattutto paura di guardarsi. Snobbato
dalla critica, ha guadagnato fama e consenso con la definitiva affermazione
della televisione (massificazione dello sguardo) pur partendo da un punto di
vista più alto (il cinema appunto) fino ad essere stato rivalutato come un
capolavoro.
Il titolo inglese (Peeping Tom
corrisponde a guardone) viene da un personaggio della leggenda di Lady
Godiva (da Il Morandini 2003 – Dizionario dei film).
Bucci Mario
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