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Radiofreccia
Anno: 1998
Regista: Luciano Ligabue;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 18-10-1998


Radiofreccia di Luciano Ligabue
Regia:Luciano Ligabue
Soggetto e Sceneggiatura: Antonio Leotti, Luciano Ligabue
tratto da "Fuori e dentro il borgo"di Luciano Ligabue(Baldini & Castoldi)
Fotografia:Arnoldo Catinari
Montaggio:Angelo Nicolini
Suono:Gaetano Carito
Musica:Luciano Ligabue
Produttore:Domenico Procacci
Interpreti: Stefano Accorsi, Luciano Federico, Alessio Modica,
Enrico Salimbeni, Roberto Zibetti, Francesco Guccini

Produzione:Fandango
Distribuzione: Medusa
Formato: 35 mm.
Provenienza: Italia
Anno: 1998


Il testo non può staccarsi dall'emozione dell'estensore: il film è retorico, a tratti schematico come il periodo di cui narra, la recitazione, soprattutto quella femminile, è imbarazzante, mai quanto la sonorizzazione in presa diretta… e ai funerali dei miei coetanei nel '77 non si suonava I can't help (falling in love), anche perché gli UB40 non avevano ancora eseguito la cover della canzone di Presley.

Però mi capita di assistere alla proiezione nel giorno in cui Kossiga impone un governo capestro alla sinistra socialdemocratica ed il cuore mi si stringe a vedere Tito che, dopo ventun mesi di galera per aver tentato il parricidio (come tutti noi in quel periodo), si rifugia nel suo angolo di prato al di là della statale. Sconsolato e senza prospettive. Ho sempre avversato quel tipo di PCI e ho giurato che piscerò sulla tomba del gladiatore piduista, come i compagni cileni di Massimo Carlotto (a proposito di fantasmi: oggi hanno arrestato Pinochet); e assistendo a questo film, meno raffazzonato di Jack Frusciante, ho capito che era davvero finita: tenuti in vita coi ricordi da reduci per sedici anni Ivan Benassi-Freccia (Francesco Lo Russo, Walter Rossi, Giorgiana Masi, Fausto e Iaio) erano definitivamente sepolti e con loro persino il ricordo della mia gioventù, il movimento del '77, le radio libere come RadioRaptus. Rimane nell'etere il credo laico di Stefano Accorsi-Freccia: "Credo nelle rovesciate di Bonimba, nella chitarra di Keith Richards, nel padrone di casa che a fine mese vuole l'affitto… E non si può credere in altro se prima non si crede in questo. Ma voler fuggire da un paese di 20000 abitanti è come voler fuggire da se stessi; e non sfuggi da te stesso, neanche se sei Eddy Merx [non mi ricordo nemmeno più come si scrive]. Ma ti rimane un buco nello stomaco, quindi prima o poi finirò con il credere in qualcosa". Lui non ci è riuscito e io non ancora.

Radiofreccia è il ritratto di quel movimento nichilista e scanzonato, pieno di gioia di vivere ucciso da Kossiga, che lo ha umiliato, imbavagliato, ammaestrato, levandogli l'anima. Ed è il racconto di come lo ha fatto anche con l'eroina, come i fratelli delle Black Panthers ed ora i ragazzi dell'Intifada. Quella adesione ad uno spirito del tempo che con i Mhz delle radio libere aleggiava imprescindibile è abbozzato benissimo da Ligabue, che probabilmente conobbe davvero le radio che per una breve stagione contribuirono a "liberare la mente" perché furono "libere veramente", finché non arrivarono gli sponsor. Ricordo l'assemblea che decretò la fine di Radio Città Futura di Torino in cui ai redattori fu prospettata una retribuzione in cambio di professionalità, che significava abbandonare quel volontariato entusiasta, che nel film è riassunto dall'elenco di musicisti di destra e di sinistra con i dj che parlano in macchina, le cuffie in testa alla postazione, nei fili diretti si sarebbe inserita la pubblicità. Ma la mia radio trasmetteva dalle cabine la cronaca delle cariche della polizia e quell'entusiasmo si appannò con il salumificio Ruini. Nelle radio di allora esistevano davvero personaggi con quella sicumera: la colonna sonora di The Last Waltz e Jackson Brown si scontravano con Jonathan Richmond e Black Sabbath, anch'io amavo i Weather Report ed il mio socio di regia, che aveva una forte rassomiglianza (mascellona maxibon) e lo stesso successo di Freccia con le donne, sapeva di Muddy Waters, B.B.King. I Clash (perché non sono citati?) ci univano contro gli estimatori di Young e i tre lagnosi compari, ma la genialata di Ligabue è inserire Iggy Pop nel momento in cui si accelera verso l'epilogo, quando un'intera generazione ha scelto di suicidare se stessa, vinta ma irreconciliata, perché si era resa conto che il sogno era stato troppo bello e doveva rimanere tale: sulle note di I'm a passenger si brucia rimbaudianamente la stagione all'inferno di quell'amore con Miss Carpi '77, come si legge in uno dei tanti cartelli scritti nel cielo, che su un copertone o una tazza del cesso di duchampiana memoria (in fondo fu uno dei nostri tanti cattivi maestri) introducono in modo filologicamente corretto i capitoli in cui è suddiviso il film che sarebbe piaciuto a Andrea Pazienza.

Memore di Nizan ("Avevo vent'anni e non permetterò a nessuno di dire che è l'età più bella") la radio si suicida un minuto prima di compiere la maggiore età, non lo fa per ragioni di soldi, "ma perché è ora", consapevoli che non ci sono più i presupposti né storici, né anagrafici per andare oltre quel 20 giugno 1993, qualche mese dopo: lo sdoganamento fascista e Berlusconi. Il sonno della ragione.

I ricordi evocati dal film sono tanti: la conflittualità con l'universo adulto ed il monito: "Te stai dentro che qui fuori è un brutto mondo", al quale ci illudevamo di essere preparati, Guccini presente al di là del bancone ed evocato in un pezzo nostalgico, odiato dai genitori, perché incarnava il pericoloso fratello maggiore anarchico che influenzava con la sua retorica intimista, le scorribande cameratesche come marcare con il piscio il territorio raggiunto dal segnale radio al suono di Sweet home Alabama, a Brescello ("tra la Via Emilia e il west"), paese del compromesso storico di Don Kamillo.

Con le ingenuità della prima regia, non scevra del peccato intimista imputato giustamente al cinema quarantenne italiano, mettendo così schiettamente in scena quegli anni rimossi con la fragranza dei loro sapori, Ligabue ci ha voluto una volta per tutte mettere di fronte alla fine di una generazione, scoperchiando le blandizie con cui ci aveva cullato Salvatores nella trilogia: qui rimangono soltanto le voci dall'al di là, registrate da Pluto ripreso da uno sguardo dall'alto che vertiginosamente scende con l'irruenza di una carica, quella stessa forza che si stempera nel miele dell'evocazione inutile e fuori luogo della pista di biglie: Freccia vuole Bitossi, il cuore matto a cui Basso soffiò la maglia iridata sul traguardo, simbolo della sconfitta dei lottatori, anche Freccia è un cardiopatico; è un episodio risaputo, ammantato di un'aria onirica ridicola nel tentativo di darsi un contegno poetico, ma fa parte dei cromosomi della nostra generazione: chi non ha fatto quelle piste di sabbia coi calzoni corti? Ecco questa è la forza del film: restituire un italian graffiti (come denuncia anche la carrellata finale sui destini attuali dei protagonisti), commisto con un altro film americano di ricordi che prendeva spunto da una canzone tante volte trasmessa in quel periodo (Stand by me) a cui si aggiunge una staffilata per risvegliare le coscienze dei quarantenni e dir loro: "È tutto finito". Però qualcuno mi sa spiegare perché prima di entrare all'Empire per vedere questo film, ho visto (o sognato?) nel Caffè Elena a fianco alcuni compagni di Lotta Continua che non vedevo da tempo?

Ma davvero dobbiamo cominciare a credere in qualcosa?