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Aicha è tornata
Anno: 2010
Regista: Juan Martin Baigorria; Lisa Tormena;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 11-02-2013


Aicha è tornata è un documentario dI Juan Martin Baigorria, Lisa Tormena, presentato alla rassegna del cinema arabo a Pesaro. Il film racconta di alcuni marocchini, i quali, dopo aver vissuto per anni in Italia, per vari motivi, obbligatoriamente o volontariamente, ritornano in Marocco. Aicha è una ragazzina, concretamente italiana, e ci racconta in primo piano, con un dolce sorriso la nostalgia dell’Italia e delle sue amiche. “Come se fossi una italiana.” Aicha è straniera due volte, prima lo fu in Italia, ora è straniera in Marocco. La ragazza scrive male l’arabo, mentre è brava in italiano. Ci mostra tutta la stupidità di pensieri e di leggi. Lei è un’italiana e dovrebbe vivere in Italia. Lei ama l’Italia e il suo posto non è in Marocco. Certo in questi documentari unilaterali a volte si esagera, e quando arriva la domanda se sono più belli i ragazzi italiani o quelli marocchini l’ipocrisia trionfa. Però Aicha non ha colpe, il suo destino non deve essere segnato. Fra i vari personaggi appaiono scene di vita marocchina. L’esistenza dell’emigrato, soprattutto gli effetti per la crisi economica è drammatica, perché non hanno legami, appoggi, amicizie solide su cui contare. Non hanno paura della povertà; a spaventarli sarebbe tornare a casa ed esibire il loro fallimento. Tante volte al telegiornale vediamo miseri clandestini arrivati con i barconi – mezzi morti – indicare con le dita il segno della vittoria. Sbarcare senza speranza in Italia è una conquista. Non conoscono nulla della realtà italiana. Per tanti anni l’industria manifatturiera, con la complicità dei sindacati, sono stati sponsor d’immigrazioni massive, il loro scopo era tenere basso il costo del lavoro. Ora i poveri immigrati, dopo essere stati sfruttati, ignorano che l’industria manifatturiera è allo stremo, sfasciata. Chi accetta la sconfitta e ritorna in Marocco è costretto ad affrontare una vita altrettanto dura, da un punto di vista sociale, di relazione ma soprattutto economica. Il breve documentario ha una sua identità. Per questo scopo tutti gli intervistati hanno una loro funzione precisa. Tutti seduti di fronte alla camera raccontano con umiltà e modestia la loro avventura. In questi documentari il problema è sempre l’esagerazione, consumando gesti inconsulti, come il racconto di una donna dalla faccia tosta. Lei racconta di aver deciso di tornare in Marocco perché il marito è stato arrestato per possesso droga. Per gli autori, nell’appassionarsi alla difesa a oltranza, non c’è mai un mutamento di cifra stilistica, neppure di fronte all’assurdo. La donna giura sull’innocenza del marito e continua raccontandoci: si tratta di una trappola di un amico, compiuta per incastrare il marito. L’amico sarebbe andato nella loro casa, avrebbe nascosto un grosso quantitativo di droga, poi sarebbe uscito e avrebbe chiamato la polizia per l’ovvio immediato arresto del suo nemico, indifferente del sequestro del materiale stupefacente di elevato valore. Il racconto assurdo c’è narrato senza un minimo sobbalzo. A tutto ci deve essere un limite, anche ai documentari.