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A’ peine j’ouvre les yeux
Anno: 2015
Regista: Leyla Bouzid;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia; Tunisia; Belgio;
Data inserimento nel database: 16-10-2015


“Considerami morta.” Della primavera araba della Tunisia sappiamo tutto. Era il 17 dicembre del 2010, il povero Mohammed Bouazizi si diede fuoco dopo essere stato picchiato dai poliziotti per aver venduto verdura senza permesso. Il cinema si è gettato all’impazzata sull’argomento. La regista Leyla Bouzid ci racconta la frenesia dei cineasti: “Tante persone all’epoca si sono messe in strada a girare con l’idea di fare documentari e filmare quello che stava succedendo.” Allora Leyla Bouzid gira il film A’ peine j’ouvre les yeux, ambientato un attimo prima della rivolta: siamo nell’estate del 2010. Farah ha diciotto anni. Si è appena diplomata, la madre la ha iscritta alla facoltà di medicina. È una buona famiglia borghese tunisina, hanno perfino una domestica nera. I genitori hanno studiato, sono stati in gioventù dei ribelli. Il padre è stato inviato a lavorare lontano da Tunisi perché si è rifiutato di iscriversi al partito del presidente Ben Ali. Farah ha gli stessi geni, perché non vuole studiare medicina ma seguire il corso di musicologia. È la cantante di un gruppo di ragazzi, il cui leader è il suo ragazzo. Alcune canzoni non sono molto amate dal regime. Segue tutta una serie di contrasti fra madre e figlia, delle disavventure di Farah, dei litigi con il fidanzato e infine le scelte diverse, un abbraccio finale: la rivoluzione sta arrivando. L’inizio è un susseguirsi, una carrellata di mani, piedi, visi, sguardi dei tunisini nella metropolitana. Sono i tunisini, desiderano una vita migliore, sognano di cambiare. Leyla è la figlia del regista Nouri Bouzid. Il genitore ha descritto la condizione della società tunisina. Nella pellicola Bambole d’argilla - Poupées d'argile raccontava il mercato delle donne di servizio delle famiglie benestanti di Tunisi. Erano raccolte nella campagna da bambine e spedite a lavorare, un vero mercato di schiave. Non è un caso, in A’ peine j’ouvre les yeux la regista ci presenta l’interessante figura della domestica nera, prima amica, poi licenziata e poi di nuovo amica. Essa è la vera emarginata, non perché sia una donna ma perché povera, analfabeta e nera: “ … sapevo che questo avrebbe comportato affrontare un po’ la questione del razzismo sia pure di maniera indiretta ma è vero che la società tunisina è estremamente razzista. Credo che quelli della generazione di mio padre siano tutti cresciuti con delle donne come lei in famiglia.” Altro tema paterno ripreso è la difficoltà per le donne ad affrontare il machismo, non solo degli anziani, ma perfino dei ragazzi con idee moderne e rivoluzionarie. È il caso del ragazzo di Farah, un giovane dalle idee aperte ma non per quanto riguarda le donne e il loro ruolo: “Io sono una femminista e tu un idiota.” Un film dolce, aperto, sognatore, teso, avanguardista, qualche mese e la rivoluzione arriverà. Poveri illusi!