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Insoliti criminali - Albino alligator
Anno: 1996
Regista: Kevin Spacey;
Autore Recensione: l.a.
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 18-03-1998


Insoliti Criminali (Albino Alligator), di Kevin Spacey. Sceneggiatura, Christian Forte. Con Matt Dillon, Faye Dunaway, Gary Sinise, Viggo Mortensen, Joe Mantegna. Usa, 1996.

Kaiser Soze passa dietro la macchina da presa...: il diabolico organizzatore di trame criminali internazionali, lo straordinario creatore-spacciatore di false verità e di leggende metropolitane, non accontentandosi più di essere eccezionale virtuoso della parola e manipolatore di menzogne e destini, diventa regista a tutti gli effetti: Kevin Spacey esordisce nella regia con "Albino Alligator" - che in Italia, per ricollegare l'attore-regista al ruolo ed al film ("I Soliti Sospetti") che l'hanno reso famoso (valendogli anche un Oscar), viene distribuito con il delirante titolo di "Insoliti Criminali". Per questa sua avventura dall'altra parte dell'obiettivo, Spacey opta per i territori cupi del genere nero metropolitano, in particolare per il sottofilone hostage-thriller (ovvero, thriller che ruota attorno ad una situazione di stallo di criminali con ostaggi tra le mani)... New Orleans, Notte. Tre criminali, dopo un colpo fallito, si rifugiano in un bar, e vi restano intrappolati: con la polizia e le squadre speciali all'esterno, ed una manciata di barflies all'interno che automaticamente si trasformano in ostaggi. Oltre, nella trama, è meglio non andare: non che sia particolarmente articolata, o che riservi sorprese mozzafiato... semplicemente, perché contiene un paio di twist (false piste per lo spettatore) portanti: e se si svelano questi, il piccolo costrutto narrativo si sbriciola. Ma "Albino Alligator" vive di altro: a Spacey interessano i personaggi, la loro ambiguità morale, il lato peggiore ed oscuro che viene spremuto dagli animi da situazioni limite, senza via di scampo. Senza Uscita, senza aperture sull'esterno oltre alla porta d'ingresso: esattamente come il Dino's Last Chance (ultima chance: sintomatico), ovvero il bar semi-interrato in cui si rintanano i tre rapinatori: un vecchio locale che risale ai tempi del proibizionismo, e che il proprietario ha conservato intatto come un piccolo santuario dedicato ai tempi andati... Da un poster alla parete, Humphrey Bogart osserva il dramma psicologico che si svolge, probabilmente ricordando il suo primo ruolo di successo, cioè quello di un gangster in fuga che prende in ostaggio alcune persone in una stazione di servizio in mezzo al deserto [The Petrified Forest (La Foresta Pietrificata), di Archie Mayo, 1936]... analogamente. Luci soffuse che ben presto virano in cono d'ombra vieppiù opprimente, lenti movimenti di macchina avvolgenti in contrasto con la tensione (prima verbale, poi fisica) che scorre tra i personaggi che isolano: l'impressione di staticità che Spacey ricerca - anche a costo di rischiare vezzi dilettanteschi nella costruzione quasi affettata delle inquadrature - è funzionale ad una sottolineatura delle esplosioni di violenza che si fanno sempre più frequenti, e che spaziano dallo sfogo allo scontro, dalla tortura all'omicidio-a-mani-nude al suicidio... Un tessuto narrativo espanso dominato dall'ambiguità: il doppio gioco si insinua in ogni piega dei due schieramenti - carnefici e vittime; ed in ogni singolo personaggio, mano a mano che la necessità di una svolta, e di un epilogo, si fa più concreta e vicina. Dramma da camera, claustrofobico, crudo, duro: il Dino's Last Chance è lo spazio in cui le tensioni latenti esplodono; in cui la sensualità diventa un'arma; in cui, progressivamente, alla logica si sovrappone l'istinto nella disperata ricerca di una possibilità di sopravvivenza; in cui la purezza del sacrificio è inquinata dal sospetto di un risvolto egoistico; in cui il suicidio rappresenta l'unico, ed estremo, modo di rimanere fuori da un gioco troppo sporco e di affermare uno scrupolo morale, se non un principio... Lo sviluppo è talmente diluito in questa soluzione a base di complessa suspense etica che la storia sembra non avanzare: ed intanto i personaggi girano a vuoto, annegando negli ovvi e pasticciati non-risultati derivanti dall'incapacità di decidere... Non resta che l'angosciato ed isterico urlare e maledire di chi è in trappola, in uno spazio troppo piccolo, troppo chiuso, senza aria, senza luce: unica finestra sul mondo esterno, un piccolo televisore che, a più riprese, fornisce la chiave per uscire - ma nessuno osserva lo schermo, muto fino all'ultimo. E sarà troppo tardi: l'elisabettiano bagno di sangue conclusivo non è per nulla risolutore (tantomeno purificatore), rappresenta piuttosto una inappellabile sentenza di dannazione. Incipit costruito sull'alternanza di situazioni che convergono in un "crocevia della morte" secondo le trame di un Caso beffardo al ritmo serrato di una fuga che muta in inseguimento, per poi rallentare in un car-crash da manuale ed infine irrigidirsi nella situazione di cui sopra: fino all'amaro finale socchiuso, in cui sopravvivono i più scaltri ed i più stupidi. Rigoroso: a dispetto della pessima accoglienza riservatagli dalla critica nostrana e statunitense, è uno dei lavori più interessanti della stagione.