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Zero Dark Thirty
Anno: 2012
Regista: Kathryn Nigelow;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 15-02-2013


“Oh my God!” Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. L’articolo 9 recita: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”, mentre l’articolo 5 sancisce “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.” Due concetti chiari e netti. Tradotto: nessuno può essere detenuto senza un intervento della magistratura e tanto meno può essere sottoposto a tortura per ottenere una confessione. Sono parole degne, frasi di grande respiro umanitario, una concezione di alta moralità, un atteggiamento di elevata statura politica. Però, c’è un però. Se una persona conoscesse un segreto da cui dipendesse la vita di tuo figlio, e l’unico sistema per ottenere quanto celato sarebbe sottomettere il detentore ai più terrificanti supplizi con la conseguenza salvezza, quale sarebbe il tuo atteggiamento? Seguiresti l’alta morale del parlargli educatamente, facendo uccidere tuo figlio, oppure ti scateneresti in trucide violenze? Io non avrei dubbi. Il film Zero Dark Thirty di Kathryn Nigelow comincia ascoltando in lingua originale le angosciose telefonate registrate dalla polizia, ricevute dalle persone rinchiuse dentro alle World Trade Center a New York l’11 settembre 2001. Dei piccoli frammenti di terrore, di consapevolezza della morte. Dall’ascolto delle voci precipitiamo in una prigione segreta della CIA in Pakistan. In un container degli agenti CIA stanno interrogando un terrorista, il quale caparbiamente si rifiuta di collaborare. In controluce abbiamo il profilo del viso dell’agente e quello sconvolto del prigioniero. È una delle sequenze più lunghe: l’interrogatorio al detenuto. Oltre la privazione del sonno, rinchiuderlo in una piccola cassa, possiamo assistere al famoso supplizio dell’acqua, il waterboarding. La tortura è il più controverso tema della pellicola. Il motivo è semplice. A portare i Navy Seal sul compound di Bin Laden è un filo conduttore nato durante informazioni recepite da due terroristi dietro violenza. Una concezione neutra è impossibile, anche se, ovviamente, la regista nega ogni sua giustificazione alla brutalità. In un’intervista al Los Angeles Times, riportata in parte da Ciak (febbraio 2013, pag. 62) dichiara: “Sono una pacifista da sempre e, come tale, appoggio qualsiasi manifestazione contro la tortura e ogni tipo di trattamento inumano… A livello pratico e politico mi sembra illogico costruire un caso contro la tortura negando il ruolo che ha giocato nelle pratiche dell’antiterrorismo americano e globale” Le ragioni sono ovvie, svelare un atteggiamento aperto nei confronti della tortura è politicamente scorretto. Le immagini comunicano chiaramente. Sono inequivocabili. E poi come scopriremo in seguito ci saranno altri esempi. L’interrogatorio finisce. La prigione è buia, gli agenti escono e dalla porta entra una luce abbacinante, fastidiosa. Il sole del deserto è accecante e getta una luce sinistra all’interno della buia e sporca cella. Il mondo di fuori è folgorante, rivelando un’esagerazione di comportamenti, destinata poi a privare la libertà, a martoriare degli esseri umani con un passaggio indietro nel tempo. La scena è ripetuta al contrario. È una sequenza molto bella, sempre nella prigione, la porta si apre, una luce forte abbagliante illumina la cella. La porta si chiude e tutto diventa nero, scuro, quello che aspetta al prigioniero è una condizione tenebrosa della sua futura esistenza. La storia parte dall’11 settembre 2001, presidente degli Stati Uniti George W. Bush. La morte di Bin Laden è del 2 maggio 2011, presidente Barack Obama. Circa dieci anni di ricerche, di tentativi assurdi, alcuni con conseguenze tragiche, sono concentrati in due ore e mezzo di cinema. La partenza è con delle bellissime scene delle prigioni e delle sevizie già legalizzate, ammesse da Bush, nel suo detainee program. A compiere queste operazioni sono agenti della CIA ostinati e patrioti. Non sono tutti, come ci immaginiamo, degli energumeni senza paura. C’è una donna semplice madre di tre figli, e poi dai primi interrogatori possiamo osservare l’agente Maya. È una donna gracile, isterica, senza vita propria, con un solo scopo: catturare Bin Laden. “Io non sono il genere che scopa” così Maya risponde all’amica curiosa delle sue abitudini sessuali. Non c’è spazio per nulla. La bravissima Jessica Chastain interpreta l’agente con gesti e movenze veloci, nervose. La regista la confronta con Dan, l’agente addetto agli inflessibili colloqui con i detenuti. Lui è un duro, ostinato, lei appare infastidita ma consapevole della ricerca della soluzione. Il film è realizzato in capitoli, ognuno dei quali ha un titolo. Tutte le sezioni, escluse la prigione e il raid ad Abbottabad, sono molto brevi, sintetici. È la forza della pellicola. La bravura è nel montaggio sintetico, stringato ma ricco di visioni. Si elimina il superfluo, si entra spedito nei personaggi e si utilizzano come degli accessori per una limpida attenzione al linguaggio e allo stile. L’ambientazione è totale, viaggiamo in giro per il mondo. Tanti luoghi e nazioni sono percorsi, si vuole ribadire l’internazionalizzazione del terrorismo, il concetto che nessun paese può essere escluso dalla multinazionale della paura. Perciò, siamo in Pakistan, come nella sede della CIA in Virginia, per tornare in una prigione a Danzica su una nave, o in Afghanistan; non può mancare Guantanámo, la Casa Bianca e addirittura la supersegreta Area 51 nel Nevada. Gli agenti sono in ognuno di quei posti. Ci lavorano, ci sopravvivono e si sentono frustrati e colpevoli se, nonostante le torture, sono incapaci a evitare gli attentati in Pakistan o a Londra. Il loro mestiere è spietato, non facile, eppure un piccolo accenno arriva durante un interrogatorio poco ortodosso, un minimo possibile legame che potrebbe portare al temuto sceicco. A credere a questo piccolo indizio è la valente e testarda Maya, lei riconosce l’opportunità riuscendo a guidare un commando di Navy Seal sul nascondiglio di Bin Laden. Il film è ottimo. Una costruzione deliziosa, degna delle migliori storie, nonostante le difficoltà oggettive per raccontare un’avventura work in progress, perché il terrorismo non è finito. Il montaggio è perfetto. Molte scene sono collegate udendo la voce prima delle immagini successive. I tanti passaggi sono indolori, dieci anni trascorrono in maniera lineare. Inoltre la coraggiosa Kathryn Nigelow aggiunge dei piccolissimi ma simbolici momenti d’epoca. Oltre il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, mostrato in televisione poco dopo lo sventato attentato a Times Square, il protagonista è il Presidente Obama. Lo vediamo in un repertorio televisivo e poi appare di sfuggita, immortalato in fotografie appese sulle pareti dei vari palazzi. Dell’attuale Presidente conosciamo bene la sua politica assicurataci prima alla sua elezione. Chiusura di Guantanámo (Guantanámo è ancora aperta), abolizione dell’USA PATRIOT Act (l’USA PATRIOT Act è stato da lui prorogato). Il suo comportamento è la riproduzione dell’ipocrisia, perciò il suo volto sorridente con dei marinai non appare casualmente. Scorgiamo Obama alla televisione esprimere la sua contrarietà alla tortura. Mentre ascoltiamo la sua voce fuori campo, gli agenti parlano di prigionieri e interrogatori. In un’altra sequenza un capo della CIA urla “che abbiamo fatto” arrabbiandosi con gli agenti per il fallimento a intercettare un attentato; un piccolo movimento della camera e scorgiamo sul muro una foto di un impassibile Obama. Ma qualcosa è cambiato. Se all’inizio Maya guardava degli VHS studiando in un excursus di spezzoni gli interrogatori di terroristi sottoposti ad azioni di forza, ora lei si concentra sulle immagini derivate da un uso smodato del satellite. È rappresentativa una frase “Io non riesco a capire i tempi della politica” a giustificare l’impossibilità a esprimere un’azione efficacia. Perché il nemico ha una struttura leggera, senza alcuna necessità di passare attraverso fasi di consenso. Il finale è puro cinema d’azione. L’assalto è un’azione di guerra organizzata con determinazione dalla regista, con un’esaltazione dei particolari e con un’attenzione ai tempi. È una scena comunque breve rispetto ad altri lavori del genere. Nonostante fossimo a conoscenza della storia e del suo finale, riesce a costruire un accumulo di tensione psicologica, e di suspance emotiva. I dettagli dell’incidente dell’elicottero, dell’incertezza, del pericolo dalle case vicine, sono narrati con intensa determinazione. È inequivocabile, senza violenza Maya non avrebbe intercettato il nome del corriere di Bin Laden. Ma non sarebbe stato sufficiente. Perché se non ci fossero state la capacità operativa e intellettiva di scoprire il punto di partenza da parte di Maya e la sua conseguente caparbietà non si sarebbe arrivata alla conosciuta conclusione. Altri elementi. Si passa dalle prigioni pakistane, al quartiere generale della CIA, alle luci sconfinate di Kuwait City, dove per ottenere informazioni, un agente corrompe la sua fonte con una Lamborghini. L’altra faccia dello sconfinato mondo arabo. Diverso è un altro punto essenziale del film: il calore e il costume del Pakistan e dei suoi abitanti. Abbiamo delle scene di genere, di sfondo sociale durante la ricerca dell’emissario, con carrellate dall’alto durante un mercato, a dimostrare la dimensione oceanica di paesi ancora obbligati a confrontarsi con mille difficoltà e problemi. C’è poi il mondo degli agenti CIA: “Voi della CIA siete strani”. Gli agenti si sentono colpevoli, consapevoli del forte stress e delle aspettative sulla loro attività. Neppure sono fieri del loro sporco mestiere. Maya all’inizio palesa sofferenza di fronte ai tormenti del terrorista. Ma cosa possono fare? Hanno altre soluzioni? La stessa Maya è sotto stress, e con gesti nervosi e titubanze personali sfugge per un attimo dall’esplosione al Marriott in Pakistan. Come miracolosamente sfugge a un altro attentato. La vita degli agenti è consacrata solo al lavoro, senza dimensione personale o familiare. Tutto si svolge in luoghi orridi. All’autrice non sfugge o tema. Poi chi sono questi agenti? Maya appare giovanissima. L’esperto agente Dan paragona – la sua giovane età e la sua inesperienza - alla crociata dei fanciulli. Ma Maya non è poi così ingenua, cresce lo spessore del suo personaggio. Spariscono i gesti nervosi mostrati all’inizio e si finisce a comportamenti isterici ma fermi e volitivi. “Io volevo tirare una bomba”, lei neanche ci pensava di mandare un commando, lei avrebbe ordinato di lanciare una bella bomba nonostante i bambini all’interno della casa. “Voi lo ucciderete per me”, lei non ha una motivazione personale, la sua decisa volontà a compiere il suo atto deriva da mera determinazione patriotica. Montaggio, azione, fotografia, una musica adeguata consentono di ottenere un prodotto completo al 95% “Perchè la certezza vi fa perdere la testa.”