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East is east
Anno: 1999
Regista: Damien O'Donnell;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: UK; GB;
Data inserimento nel database: 05-11-2000


East is East

EAST IS EAST

Regia: Damien O'Donnell; Sceneggiatura: Ayub Khan Din; Fotografia: Brian Tufano; Montaggio: Michael Parker; Musica: Deborah Mollison; Suobno: John Downer; Scenografia: Tom Conroy; Costumi: Lorna Marie Mugan; Art Director: Henry Harris; Casting: Toby Whale, Joan McCann. Interpreti: Om Puri (George Kahn), Linda Bassett (Ella Khan), Jordan Routledge(Saijd Khan), Archie Panjabi (Meenah Khan), Emil Marwa (Maneer Khan), Chris Bisson (Saleem Khan), Jimi Mistry (Tarik Khan), Raji James (Abdul Khan), Ian Aspinali (Nazir Khan), Lesley Nicol (Auntie Annie), Gary Damer (Earnesti), John Bardonm (Mr Moorhouse), Emma Rydal (Stella Moorhousei), Ruth Jones (Peggy). Produzione: Assassin Film. Origine: GB, 1999

Ancora una volta la cinematografia più ipocrita del continente si permette di affrontare temi delicati usando mezzucci degni del Bagaglino con lo stesso risultato di pressapochismo. In questo caso a peggiorare ulteriormente le cose si ribalta pure l'approccio progressista dei già indecorosi Full Monthy e Grazie Signora Thatcher, ottenendo una straniante sensazione di vago razzismo, soprattutto quando in scena appaino le corrive macchiette degli amici o la maschera del padre (propongo una lunga pena detentiva anche per il "dannato" doppiatore, che adotta un gergo a metà tra Don Lurio e i pellerossa doppiati nei 40s), affidato senza sensibilità ad un attore indiano (i peggiori nemici del Pakistan). Da pochade mal combinata risulta poi la storia, limitata ai maneggi per combinare matrimoni, infarciti di improbabili ricostruzioni della vita quotidiana di una famiglia, accampata in una friggitoria nei sobborghi di Manchester '71. A ciò si assomma una totale mancanza di sensibilità, cancellata dalla necessità di far ridere schernendo il bisogno di mantenere un'identità pakistana, peccato mortale dell'emigrato nell'epoca della globalizzazione; l'abisso di insipienza si tocca quando senza alcun motivo apparente ci troviamo catapultati in un negozio di coiffeur, ovviamente scelto per aprire una finestra gay sul plot, che fino a quel momento aveva tentato di tutto per ammassare i peggiori luoghi comuni e le più inconsistenti situazioni di grossolana comicità da quattro soldi ...: mancava soltanto l'omofobia e detto fatto si è trovato un modo raffazzonato per introdurla.

Non necessariamente si deve essere tolleranti con ogni sorta di manifestazioni di culture estranee all'Occidente: ad esempio la circoncisione è una prassi barbara, ma che enorme differenza tra la delicatezza di Ouedraogo quando si occupa di infibulazione e la rozzezza da latrina di caserma a proposito dell'operazione ancora da farsi al più giovane dei figli di George Khan (caratterizzato da un parka-copertina di Linus, perché ciascun protagonista deve essere connotato da pochi tratti semplificativi, ottenendo un ulteriore bozzettismo di cui non si sentiva alcun bisogno), inalberata da questo gruppo di anglo.integrati, che attraverso il film, evidentemente rivolto alla società britannica affinché si liberi dei residui rimasugli di identità aliene, persegue il dileggio di qualunque espressione culturale della comunità pakistana, costantemente mostrata negli aspetti più ridicoli. Persino gli eroi positivi, i giovani integratissimi, sono raffigurati in modo da ricavare il massimo di comicità d'accatto dalle loro disavventure (sette figli, un'enormità utile per mostrare tutte le diverse reazioni dei succubi all'autoritarismo del padre tradizionalista), come la società "blair" ha deciso di risolvere lo squallore di far sopravvivere nelle periferie emarginate gli eroi da operetta. E che si tratti di una fattura "leggera" è denunciato dalla sequenza iniziale con la processione che si dipana come farsesca burla ordita alle spalle dell'inflessibile patriarca, a cui fanno seguito altrettante canzonature tutt'altro che bonarie (Bradistan campeggia nel cartello della località in inglese Bradford, l'assenza dei cessi e quindi l'uso dei secchi come orinatoi, usati per una offensiva sequenza di sboccata ilarità).

Fin dall'inizio si ha il polso di come si svilupperà l'agonia: pomposamente aleggia la frase: "tradizione vuole...", dopodiché con ritmi televisivi si passa alla cerimonia rifiutata da Nazir ed in rapida successione la cancellazione del figlio degenere attraverso la risaputa eliminazione della sua foto. Una sequenza breve e colma di ellissi: in sé sistema pregevole a saperlo realizzare, che qui si pone al servizio di uno sguardo rivelatosi immediatamente come volto a cogliere solo gli aspetti più ridicoli, mostrando soltanto parzialissime situazioni già commentate dalla ricostruzione e da prevedibili battute risapute e dozzinali; il saluto al prete che gli augura "Dio ti benedica", a cui risponde "Allah sia con te" fa il paio con l'insistenza della fessura a forma di figa attraverso la quale si parla con il ragazzino del suo prepuzio in pericolo; volgarità gratuita quasi quanto il festino con salsicce falliche in assenza del padre musulmano: sono solo alcune delle situazioni in cui si mette in scena l'immaginario collettivo aumentando volontariamente la prevenzione contro i pakistani attraverso la conferma delle peggiori semplificazioni. Tutto ciò risolve il dubbio che attanaglia lo spettatore all'inizio: spontanea infatti sorge la domanda se quello a cui assistiamo sia colpa della tradizione pakistana o della chiusura britannica e l'ennesimo grandangolo dal basso stile Trainspotting conferma che questo atteggiamento deriva dalla supponenza inglese, che impone il proprio punto di vista deformato e dal basso delle proprie convinzioni.
L'opera subisce inoltre la sua origine teatrale: infatti soprattutto il dolly finale ci espone l'impianto drammaturgico nella sua claustrofobica costruzione da sit-com. Tutto si svolge nel vicolo e nel disadorno interno imponendo l'uso sistematico della lente deformante del grandangolo, a cui si alternano le inaccettabili scampagnate multicolori sul furgoncino: una ignobile farsa da cartoon di infima specie, dove l'inquadratura sul fianco del van evoca proprio i più seriali cartoons degli anni Settanta. Il largo uso di grandangoli impedisce un approccio realistico, quasi quanto l'inserzione del film di montagna indiano -tema tradizionale di quella cinematografia, a cui assiste l'intera famiglia -, piomba come un universo totalmente avulso (e quindi da eliminare) nella realtà britannica, già deformata biecamente dal linguaggio adottato, che spiega anche la distanza dalla raffinatezza di Frears dell'unico suo film tratto dalla sceneggiatura di Ayub-Khan Din (Sammy e Rosie vanno a letto era una delle più gratuite e scollacciate rappresentazioni dei suburbs inglesi negli anni Ottanta e finora non mi capacitavo che l'avesse realizzato l'autore di My Beautiful Laundrette), responsabile anche di questo lavoro di O'Donnell.

É una farsa teatrale trasposta in linguaggio cinematografico senza neanche prendersi la briga di tradurla adeguatamente.
É un'operazione di memoria che la tradisce volontariamente adottando lo sguardo inglese, ma senza volerlo rimane succube dell'immaginario melodrammatico delle produzioni cinematografiche della Bollywood sulle rive del Gange.
É la messa in scena di una ribellione contro i ruoli precostituiti, che non emerge mai come tale perché soffocata dalla farsa, rendendo pericoloso il risultato dal punto di vista della contrapposizione delle culture: nessuna delle due emerge come tollerante, ma quella destinata a scomparire perché medievale è quella asiatica, laddove il nazismo delle manifestazioni inglesi viene guardato senza esagerate stigmatizzazioni, anzi viene girato in burla. Mentre le botte alla moglie sono quasi un corollario dovuto, che non fa indignare nessuno degli spettatori impegnati a ridere del grottesco mondo messo in scena, che concede una inquadratura di meno di un minuto alle notizie radiofoniche dal Pakistan, senza riuscire a comunicare lo struggimento dell'ascoltatore, lontano emigrante, partecipe delle guerre contro l'India.

C'è da chiedersi quali polemiche avrebbe scatenato un film dello stesso tipo su un qualunque fascista italo-americano aggrappato alle sue tradizioni a Brooklyn.