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The Adventures of Iron Pussy - Hua jai tor ra nong
Anno: 2004
Regista: Apichatpong Weerasethakul;Mich;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Thailandia;
Data inserimento nel database: 19-09-2011


“… solving your problem with Dharma is better than with drugs.” Apichatpong Weerasethakul è regista di profonda sensibilità, capace di creare scene di largo respiro. La sua umanità si manifesta con sogni, incubi, e una profonda esaltazione della tradizione tailandese. Insieme all’attore Michael Shaowanasai nel 2003 dirige il film Le avventure di Iron Pussy, l’anno successivo sarà la volta dell’incantevole Tropical Malady. I due film potrebbero sembrare diversi, con tematiche e generi separati ed autonomi. In realtà Tropical Malady parte dalla fine di Iron Pussy: dalla amata foresta, pregna di spiriti e di ancestrali defunti. Iron Pussy è un mix ironico di generi. Si parte parafrasando uno 007 storico con parvenze umano. Lo 007 alla Sean Connery o Roger Moore è affascinante, bello, atletico, volitivo e circondato da mille bellissime donne. L’agente segreto di Apichatpong Weerasethakul è un travestito. Un uomo bruttino e calvo, con un banalissimo lavoro al 7 eleven. Diventa un eroe capace di affrontare i peggiori pericoli trasformandosi in donna con acuminati tacchi a spillo. L’ironia diventa spunto sociale: tutti possono essere degli eroi; nulla cambia al mutare della sua apparenza sessuale. Soprattutto si vuole rendere nazionali generi occidentali; anche in Thailandia è possibile avere una spia eroe. A questa lettura si arriva con una partenza deliziosa: una rissa come cow boy ubriachi in un bar della campagna tailandese. Ci si ritrova in una comica muta alla Charlie Chaplin, accompagnata solo da alcune note al pianoforte. Si arriva al musical. Le canzoni intervallano l’ironia della storia, rendendo inesorabilmente senza speranza ogni velleità seriosa. Aggiungiamo costumi, posture volutamente finte, movimenti da cartone animato, e un forte accento da favola antica. Il finale è una concessione totale al genere melò. La sdolcinata e fintamente drammatica conclusione è una vittoria del genere, all’apice c’è una deliziosa madre con il figlio morente esempio di una Pietà tailandese sullo sfondo della animata foresta. E ritorniamo nella foresta, quel fantastico ed irreale habitat dei suoi successivi film, dove la vita è vera solo se raggiunge una congiunzione con gli spiriti. Senza spiriti non c’è realtà. Il linguaggio è completo, didattico, ma con una caratterizzazione alla esagerazione. Colori, movenze, camera dal basso e primi piani, attori, tutto serve per accentuare satira senza mai obbligare alla irrisione o all’umorismo fine a se stesso.