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The Million Dollar Hotel
Anno: 2000
Regista: Wim Wenders;
Autore Recensione: Andrea Caramanna
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 06-04-2000


The million dollar hotel

The million dollar hotel

Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Nicholas Klein, Bono, Deepak Nayar
Fotografia: Fedon Papamichael
Produzione: Bruce Davey, Bono, Wim Wenders
Interpreti: Jeremy Davies, Mel Gibson, Milla Jovovich, Amanda Plummer, Peter Stormare
Origine: Stati Uniti-Germania 2000
Durata: 117 min.

 

Wim Wenders non è più quello di "Paris, Texas" o di "Nel corso del tempo", tuttavia è rimasta vivida nel cineasta tedesco cinquantacinquenne la capacità di condensare in immagini il desiderio politico di libertà che dipende direttamente dal rapporto tra comunicazione e potere. Un affrancamento sempre più difficile da conquistare nella società contemporanea - non a caso la data 2001 è sottolineata per due volte nel film quasi a suggerire l'ipotesi di un futuro vicino che è già il nostro presente - dominata dai poteri tecnologici che offuscano la verità spacciandola per corretta informazione. L'aggressione dei poteri occulti è per Wenders sempre più inquietante e visivamente apocalittica perché i potenti d'oggi utilizzano strumenti invisibili per spiare, scovare i segreti della gente normale. L'uomo della strada è così costretto a rifugiarsi in quei luoghi che consentono di sottrarsi alla vista, al controllo, alla penetrazione incessante del Grande Fratello. Il Million Dollar Hotel è l'altro luogo, il piccolo-grande universo pre-tecnologico, il sottosuolo claustrofobico, oscuro (il nero dominante della fotografia) e primitivo, abitato da individui "diversi", appartenenti a gruppi umani emarginati, rappresentanti di varie etnie: il ragazzo scemo Tom Tom, l'indiano Geronimo, una vecchia, un negro, il musicista Dixie che giura di essere il fantomatico quinto Beatle, Eloise, strana prostituta che cammina a piedi nudi e legge "Cent'anni di solitudine".
Caratterizzazioni nevrotiche che funzionano alla perfezione per almeno due ragioni. La prima è che ci rendiamo conto che tra tali individui i rapporti di potere sono ancora equilibrati, è possibile "quell'idillica immagine del melting-pot, come armoniosa mescolanza d'ingredienti diversi" (vedi Umberto Curi in "Lo schermo del pensiero - Cinema e filosofia" Raffaello Cortina editore, recensione su Paris, Texas), tanto è vero che ad un certo punto si riuniscono e votano democraticamente come i fondatori degli Stati Uniti d'America. La seconda riguarda l'atmosfera del film, improntata all'eccesso ripetuto, al kitsch e al caos anarchico che ricorda il cinema di Terry Gilliam e le deformità dei mostri di Tod Browning. È chiaro che la traccia thriller, con la consueta indagine e ricerca dell'assassino non va considerata, giacché la struttura drammaturgica del misterioso omicidio è molto debole, strumentale all'ennesima riproposizione del voyeurismo angelico, i voli sopra i cieli, le città, Los Angeles al posto di Berlino.
Nella sequenza iniziale Tom Tom si lancia dal tetto dell'albergo dopo una lunga corsa, una caduta di decine di metri rallentata, accompagnata dalla sua voce fuori campo che contempla la bellezza della vita, la voce di un morto come nel recente "American Beauty".
I vertici impenetrabili sono rappresentati più che dall'FBI, l'agente Skinner (stesso nome di quello degli X-files) interpretato da uno stralunato e mai visto in un personaggio così sgangherato Mel Gibson (anche lui segnato dalle cicatrici), dalle invadenti televisioni, i media in grado di sovvertire tutti gli equilibri e il mondo dell'arte uno fra i tanti mascheramenti dei voraci interessi economici.