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The Blair Witch Project
Anno: 1999
Regista: Eduardo Sanchez; Daniel Myrick;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 19-03-2000


The Blair Witch Project

Due strade sembrano aprirsi di fronte a chi voglia scavare un po' in questo strano film che è The Blair Witch Project. Due strade che non soddisfano fino in fondo, pur proponendo elementi sicuramente apprezzabili e interessanti. La prima strada è quella tutta simbolica, che già di norma mi piace poco; ed è in questo caso una strada ricca di proposte: che c'è infatti di più simbolico del bosco? Propp già insegnava che la "casa nel bosco" era una di quelle funzioni caratteristiche dei racconti di magia; ma poi c'è il voodoo, c'è la tenda come luogo claustrofobico ricorrente, una sorta di fortino assediato da misteriose presenze percepibili solo con l'udito, e tanto altro... Ma appunto, pur fornendo stimoli utili e anche corretti, questa strada alla fin fine dice poco.

L'altra ipotesi, all'opposto, respinge almeno in prima battuta la simbologia dei contenuti e si colloca nell'analisi delle forme espressive e nel metacinema: allora si tratta, abbastanza agevolmente, di individuare il sovrapporsi e l'intrecciarsi di video e film 16 mm., di immagini "sporche" e di primi piani cinéma-vérité: il tutto condotto, come sappiamo, da cima a fondo, poiché molto altro non sembra esserci in tutto il film. Anche qui il discorso può essere interessante, ma rischia di essere accademico.

Così chi vuole proseguire si dibatte nella contraddizione seguente: è possibile che il film dica qualcosa che stia "oltre": oltre l'analisi formale e oltre l'apparato simbolico, massiccio e fin troppo incombente? Forse giova partire proprio da qui. Pur guardando come al fumo negli occhi all'interpretazione simbolica dei film (o dei romanzi), credo che si possa dire che il bosco in questione ha la caratteristica di essere stratificato, ricettacolo sincronico e diacronico di vecchie e nuove inquietudini: appartengono al passato i resti, documentati dalle prime interviste agli abitanti della zona, di una civiltà indiana; appartengono egualmente a un passato (forse) più recente le tracce delle pratiche voodoo, che però potrebbero essere riproposte da qualche esaltato dei giorni nostri oppure dagli elementi di qualche setta; e ancora, la pressione che si stringe intorno ai tre giovani potrebbe prendere la forma, via via, di qualche animale selvatico, ma anche di qualche voyeur, o di una banda di teppisti o di qualcuno che non vuole seccatori mentre si dedica ad attività proprie, oppure... oppure tutte queste forme combinate insieme. L'interessante è allora proprio il fatto che queste diverse forme di assedio convivono, almeno nelle ipotesi nostre e dei protagonisti. E convivono nel bosco di Blair come convivono in tante realtà metropolitane di oggi (da un mese anche la collina di Torino è sotto l'incubo di una pantera nera fuggita da chissà dove, che si aggirerebbe in cerca di cibo e di avventure).

Ma qui si pone un problema, che mi sembra ricorrente in vari film di questi ultimi tempi: il fatto cioè che la ragion d'essere del film stesso stia più al di fuori di esso che non nella sua espressione. In altri periodi (neanche troppo lontani, i primi ' 80), altri generi, altri autori si poteva forse riscontrare una tendenza opposta, quella a far coincidere il racconto, l'evoluzione dei personaggi e dei loro pensieri, le idee stesse del film, con il film stesso, e questo era il loro fascino: sia nel film d'azione (butto lì I predatori dell'arca perduta) sia nel mélo come lo proponeva Fassbinder (diciamo Il matrimonio di Maria Braun) tutto il retroterra (storico, di contesto, di antefatti raccontati dai personaggi) scompariva di fronte all'incalzare dell'azione e dei modi, per quanto distanti le mille miglia l'uno dall'altro. Nel plot e nel découpage, e, con terminologia cara a Alain Bergala, nel "filmage" stava il senso anche ideologico (lo dico in valore positivo ovviamente) del film. Poi, al di là di questo recinto formale e ideativo, naturalmente, ognuno poteva aggiungere del suo nell'interpretazione. Come anche oggi, di fronte al "Blair Witch Project". Ma in questo caso la "pesa" del senso mi indica che la bilancia pende a favore del fuori, non solo fuori campo, ma proprio fuori film. In questo caso la realtà come stratificazione, di contro a una "percezione della realtà" che ormai è appiattita sull'oggi e sul visibile, su ciò che è statisticamente rilevante. Di fronte a un evento qualsiasi di cronaca, come nei quiz di un tempo, "la prima risposta è quella che conta", sociale, storica, cronachistica, fondata sul pregiudizio o sulle simpatie più istintive e spontanee (anche giuste, perché no?). Ma risposta, sempre o quasi, che sfugge la complessità, invece richiesta dal mondo che viviamo. Non che The Blair Witch Project dia risposte concrete a questa mancanza, forse semplicemente afferma che il problema è un po' più sfaccettato di quel che sembra.