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Star Wars - La minaccia fantasma - The Phantom Menace
Anno: 1999
Regista: George Lucas;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 26-09-1999


Sugli schermi il nuovo capitolo di Guerre stellari La minaccia (è il) fantasma Episodio 1 - La minaccia fantasma (Star Wars Episode 1 - The Phantom Menace); di George Lucas; con Liam Neeson (Qui-Gon Jinn), Ewan McGregor (Obi-Wan Kenobi), Jake Lloyd (Anakin Skywalker), Nathalie Portman (la regina); Usa 1999; durata 2 h e 10'. Verso la fine di questo primo episodio del nuovo ciclo di Guerre stellari, l'Obi-Wan Kenobi ante litteram, interpretato da Ewan McGregor, si ritrova a fronteggiare il demoniaco Darth Maul nell'estremo confronto tra eroe ed oppositore che caratterizza tutti i racconti assoggettati al regime di narrazione forte. L'inevitabilità dello scontro duale tra Bene e Male, già decisivo per la risoluzione della pellicola, viene reso ancora più inevitabile dalla precedente morte del maestro jedi Qui-Gon Jinn (Liam Neeson) per mano del malvagio. L'ira per la perdita del maestro porta Obi-Wan sull'orlo della sconfitta (anche questa inevitabile: il regime impone che la vittoria debba nascere dalla situazione più svantaggiosa possibile), da cui riesce ad emergere prontamente fino ad arrivare alla necessaria e catartica vittoria finale. Obi-Wan si trova letteralmente appeso ad un gancio di un profondo pozzo. Ad un certo punto, quando ormai si comincia a disperare per la sua sorte, egli vede la spada laser tristemente lasciata sul campo dalla sua guida spirituale, la prende e divide in due (dalla vita in giù da una parte, dalla vita in su dall'altra) il proprio spietato nemico. Momento importante per il film per almeno tre motivi. Uno di ordine esclusivamente narrativo, visto che garantisce la felice soluzione dell'intreccio con la vittoria del Bene sulla bieca malvagità cosmica; uno di ordine essenzialmente tematico-propositivo (o preventivo, dato che si tratta di un prequel), con il passaggio di consegne tra maestro e allievo (fino a far generare il dubbio, avanzato dalle eminenze grigie jedi, che l'allievo sia stato già maestro per la sua guida) e quindi dell'ideale passaggio di consegne che permette alla bontà universale di regnare sovrana e rassicurare così lo spettatore medio. L'ultimo motivo, da un certo punto di vista meno importante perché quasi certamente involontario nella portata delle sue conseguenze sul risultato finale dell'opera, riguarda la sfera linguistica del film, la modalità realizzativa attraverso cui George Lucas mostra la risoluzione della contesa. Obi-Wan Kenobi è mostrato mentre pende sul baratro agganciato ad una protuberanza del profondo pozzo in cui la violenza di Darth Maul lo ha spinto. Il malvagio cavaliere sta per infliggere allo jedi il colpo di grazia, il pubblico trepida al solo pensiero, ma ecco che il coraggioso paladino del Bene riesce a vedere la spada laser abbandonata a terra dal suo maestro Qui-Gon Jinn, appena deceduto. Obi-Wan s'impossessa della spada grazie ai poteri della sua mente telecinetica e riesce a colpire il nemico che piomba nell'infinito pozzo cilindrico al suo posto. Ma la telecinesi basta a giustificare l'appropriazione da parte dello jedi della spada lasciata in terra, non certo il fatto che questi riesca a vederla: ad un piano dall'alto che mostra Obi-Wan che spalanca gli occhi sorpreso (di vedere la spada per terra e quindi la conseguente salvezza), segue una soggettiva che illustra quello che ha causato lo sguardo sorpreso dello jedi, ossia l'impugnatura della spada laser. Ma Obi-Wan è sotto il livello del pavimento di almeno un metro e mezzo: come ha fatto a vedere la spada?, o meglio, come mai la soggettiva mostra erroneamente qualcosa che il personaggio non può assolutamente vedere? Non siamo di fronte ad una soggettiva conosciuta come ocularizzazione modalizzata, un'inquadratura che mostra ciò che il personaggio pensa al posto di ciò che effettivamente vede; troppo ancorata alla realtà la possibilità di perdere la propria vita per potersi affidare alla sensorialità; troppo rigoroso il raccordo, troppo nitida l'immagine per non intenderla come pienamente vista. L'unica via è quella di intendere l'inquadratura come una soggettiva ideale, frutto di una scelta totalmente arbitraria da parte di Lucas che punta a pervertire lo sguardo per piegarlo alle sue esigenze logiche. E tutto il lavoro messo in scena per realizzare questo nuovo capitolo dell'ormai eterna saga di Guerre stellari (arriveremo agli eccessi di Star Trek?) pare attestarsi intorno ai concetti di ideale e di perversione. Lucas ha voluto rincorrere le idee e i temi già messi in campo nel 1977 durante il primo film: il contrasto manicheo tra Bene e Male (ma questo si rifà normalmente alla precisa assiologia di valore che si riscontra in una storia dove la narrazione, almeno nominalmente, intende apparire come il motore che stimola massicciamente la storia); gli slanci vitali bergsoniani e junghiani dovuti al concetto di Forza, intesa come principio supremo da seguire; la generosità, l'altruismo, l'esempio (se alla fine degli anni Settanta era di ascendenza orientale, ora appare più che altro perdutamente new age) e il coraggio; la salvezza e il peccato filtrato attraverso la concezione cristiana (il piccolo Anakin Skywalker è connotato come il nuovo Messia - la madre è stata concepita senza alcun contatto "biblico" -, in lui riluce la nuova speranza di salvezza per tutto il genere umano, ma chi conosce la saga sa che per lui è prevista una luciferina caduta verso gli abissi più profondi della malvagità). La ricchezza di questi temi già sfruttati in precedenza non viene rielaborata ma si ferma alla forma di una messa in scena che si limita a mostrare, beandosi degli ingenti mezzi a disposizione e puntando tutto sull'effetto di meraviglia di ogni singola immagine piuttosto che su di un'effettiva scansione narrativa solida ed inattaccabile. E poco importa se ad una ben caratterizzata forma non corrisponde un adeguato contenuto: nel cinema postmoderno, dove cioè il cinema riflette sulle sue stesse possibilità di essere mezzo in quanto tale e sulle potenzialità linguistiche e comunicative, il binomio si mostra spesso inadeguato e quasi sempre discussione un po' oziosa. Quello che lascia perplessi in La minaccia fantasma è come il racconto si pieghi totalmente alle esigenze degli effetti speciali e digitali, di come la narrazione sia quasi inesistente, intenta com'è a contemplarsi nello splendore delle immagini artificiali e degli sfondi ricostruiti ad arte. In questo risiede la perversione visiva di un film come La minaccia fantasma, nell'aver sostituito ad un interesse genuino per la storia ed il suo conseguente sviluppo narrativo, la contemplazione dello sguardo sull'oggetto riprodotto in modo artefatto, per il sublime che deriva dall'effetto digitale. Alla magia della vicenda si contrappone prepotentemente (e in modo preponderante) lo stupore per il frammento, sulla complessità della storia prevale la semplicità percettiva dell'inquadratura, la logica organizzativa è superata dal singolo momento di fantasmagoria. I momenti di grande cinema all'interno de La minaccia fantasma sono dovuti a singoli episodi (la fantastica corsa degli sgusci, debitrice di Ben Hur e il combattimento finale tra i due jedi e Darth Maul) in cui la regia è sostituita dalla coreografia computerizzata e dove la perfezione del movimento non si inscrive nella globalità del lavoro, ma rimane modalità spettacolare fine a se stessa, staccata dal contesto che le dovrebbe essere propria. Ed anche le citazioni, le suggestioni attinte a piene mani dall'intera storia del cinema (oltre a Ben Hur, notevoli sono le somiglianze con Jurassic Park - nella scena della battaglia a cielo aperto -, con Starship Troopers - per una certa grottesca caratterizzazione dell'elemento fantastico -, con il Cleopatra mankiewicziano - per la sontuosità delle ambientazioni regie -, con i Nibelunghi di Fritz Lang - per una sorta di statica ieraticità nella definizione della corte reale) non fanno altro che bloccare nell'estremo atto del freeze ipostatizzato, del congelamento dell'idea filmica, dell'effetto visivo, dell'immagine catturante, tutta la perversione di un'operazione condotta solo per magnificare ulteriormente un mito cinematografico che, probabilmente, aveva solo bisogno di essere lasciato in uno splendido e rimembrante isolamento. Giampiero Frasca