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Arlington Road
Anno: 1999
Regista: Mark Pellington;
Autore Recensione: luca aimeri
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 15-04-1999


Il 19 aprile 1995 esplode un’auto-bomba ad Oklahoma City: oltre mille libbre di tritolo spazzano via l’edificio governativo Alfred Murrah Building, sede, oltre che del comando dell’Fbi, dei servizi segreti, del tribunale e dell’agenzia anti-droga, di un

Arlington Road – L’inganno (Arlington Road); regia: Mark Pellington; sceneggiatura: Ehren Kruger; cast: Jeff Bridges, Tim Robbins, Joan Cusack, H. Davis, R. Gosset. Usa, 1999; dur.: 128’.

Il 19 aprile 1995 esplode un’auto-bomba ad Oklahoma City: oltre mille libbre di tritolo spazzano via l’edificio governativo Alfred Murrah Building, sede del comando dell’Fbi, dei servizi segreti, di un tribunale, dell’agenzia anti-droga, e di un asilo. Le vittime furono settantotto, diciassette erano bambini. Due anni prima, una bomba aveva colpito le Twin Towers di New York: un attentato al cuore degli States, nel cuore degli States. Con l’attentato alle "torri gemelle" il terrorismo era diventato una realtà, e la "minaccia islamica" qualcosa di più che concreto e presente; con il dramma di Oklahoma City il problema svelò tutt’altro volto, più ‘famigliare’ e più inquietante: in quel caso, infatti, si scoprì che i terroristi non erano islamici, ma cittadini americani del ceto medio affiliati a gruppi di estrema destra. Se la fantapolitica di "Attacco al potere" (The Siege, di Edward Zwick, Usa 1998) prendeva le mosse dal caso di New York per sviluppare le sue ipotesi action-apocalittiche, "Arlington Road" si incentra sull’orrore della cronaca di Oklahoma, puntando soprattutto sull’inquietudine implicita nei risultati delle indagini: il nemico non era più qualcuno di ‘esterno’ e ‘diverso’ come si presupporrebbe dover essere un Nemico, in qualche misura ‘riconoscibile’; al contrario, il terrorismo si rivelava un problema ‘interno’, e l’attentatore poteva essere un americano, un insospettabile, il vicino di casa magari. Qui risiede il nucleo drammatico di "Arlington Road": la partita dei sospetti si gioca infatti tra il professore universitario Jeff Bridges, e i tranquilli vicini, l’architetto Tim Robbins e famiglia. Il personaggio interpretato da Bridges è emozionalmente e professionalmente coinvolto con l’argomento "terrorismo": ha perso la moglie, agente Fbi, in una operazione contro sospetti terroristi/trafficanti di armi; gli attentati sono (diventati) la materia di approfondimento dei corsi di storia del tormentato professore. La tesi (del protagonista e del film): il terrorismo è una realtà articolata e complessa, che tuttavia si tende a semplificare e negare, liquidandola ogni qualvolta si riesca a individuare e arrestare almeno uno dei componenti del complotto. La società necessita di un colpevole o quantomeno di un capro espiatorio per assorbire il trauma e i fantasmi: un errore umano, di sottovalutazione, di ingenua difesa; ci si ferma all’evidenza senza contare che la stessa evidenza potrebbe essere un "inganno", parte integrante del progetto. Il secondo elemento drammatico/drammatizzante desunto dalla realtà, e su cui la sceneggiatura è ampiamente impostata, è rappresentato dal coinvolgimento in prima persona dei bambini nei "giochi" degli adulti: paradigmaticamente il film si apre con una sequenza durissima, estremamente aggressiva e disturbante anche nelle modalità visive, in cui il figlio del "vicino di casa" barcolla per strada, sanguinante, sotto choc; si è ferito con i ‘fuochi d’artificio’ del padre.

"Arlington road" vive di un ritmo altalenante, tra veri e propri picchi di tensione e cadute di tono in cui la prevedibilità parrebbe avere il sopravvento: conseguenza della volontà di non concedere troppo al genere di riferimento, alla spettacolarizzazione di una materia narrativa che è evidentemente debitrice della cronaca. In questo senso, si è tentato di creare un equilibrio tra intreccio e approfondimento dei personaggi (protagonista e antagonista sono ossessionati dalle relative backstories). Il rischio che corre un’operazione come questa è il medesimo degli altri recenti bomb-thriller: fare cinicamente leva sul più recente incubo americano per sfornare un prodotto di forte presa. In tal senso, poi, questi stessi film parrebbero parte integrante del meccanismo di riassorbimento e normalizzazione dell’orrore di cui trattano (analogamente a quanto avvenuto con la figura del serial-killer). Un rischio ancora più forte nel caso di "Arlington Road", in quanto fortemente improntato ad una critica nei confronti della società americana e delle istituzioni. Una possibile contraddittorietà che aleggia fino al climax conclusivo, dove tra il precipitare degli eventi e l’accelerazione dovuta a un timelock implicito (e non scandito secondo formula) non resta spazio per soluzioni consolatorie ed ha il sopravvento la coerenza. Il momento forte del film (il colpo di genio a livello di scrittura) risiede dunque nel finale: nel capovolgimento repentino, nello svelamento dell’ultima fase del piano criminoso, nella vittoria dell’antagonista, nella negazione di qualsivoglia colorazione happy della chiusa, risiede la chiave di una operazione che non concede speranza al pubblico, ma accelera e va dritta verso la tragedia come accadde nella realtà, ad Oklahoma. Parimenti, la ricerca formale di Pellington non si concede a particolari estetizzazioni: regia al servizio della storia, funzionale e funzionante, distante nel complesso dalle modalità allucinate dell'efficacissimo incipit. I meccanismi suspense del thriller sono supportati da un montaggio efficace, nervoso quando necessario; il versante action dei flashback è stemperato in rallenti che tendono a restituire gli eventi alla loro terribilità piuttosto che indugiare; per rendere la solitudine del personaggio, e la cappa di ineluttabilità che si va componendo sul suo destino, la fotografia talvolta sfiora la teatralità nella costruzione del quadro e nel lavoro sull’illuminazione che ritaglia nell’oscurità pozze di luce… Una netta ricerca di coerenza, un rispetto della materia drammatica debitrice della cronaca più buia, un tentativo esplicito di mantenersi in equilibrio tra esigenze di entertainment e contenutistiche: cinema mainstream con pudore, forse troppo. Tim Robbins è un ‘grande’ cattivo, credibile, ambiguo; Joan Cusack eccede forse nei tratti luciferini; Jeff Bridges è in piena forma. Curiosità: le musiche sono curate da Angelo Badalamenti, abituale collaboratore di David Lynch.