NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Celebrity
Anno: 1998
Regista: Woody Allen;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 29-12-1998


Celebrity

Celebrity

Regia: Woody Allen
Soggetto e Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Sven Nykvist
Interpreti: Kenneth Branagh, Judy Davis, Leonardo DiCaprio, Melanie Griffith, Michael Lerner, Joe Mantegna, Greg Mottola, Irina Pantaeva, Winona Ryder, Jeffrey Wright, Kim Basinger, Drew Barrymore, Kate Winslet, Soon Yi
Produzione: Jean Doumanian
Formato: 35 mm.
Provenienza: USA
Anno: 1998


A noi, che non goderemo mai dei famosi quindici minuti di celebrità di Warhol, cosa può importare di quel mondo compreso tra due effimeri help? É un universo che si compiace di avvilupparsi attorno alle proprie spire, senza accessi per l'ingresso, ma ancor meno uscite: nemmeno Salinger, Pynchon o Malick possono sottrarsi alla loro aurea condanna al jet set, di cui fanno parte attraverso la loro ingombrante assenza. Dunque chiamarci a fare da spettatori - speculari di quelli "privilegiati" che assistono alla prima del film nel film - ai riti ripetitivi di ogni film di Allen, senza neanche poterci consolare con la brevità dei precedenti, è una squallida operazione di coinvolgimento degli esclusi; per di più dileggiandoci, perché incapaci di sollevarci dal nostro stato di inferiori che "misurano la vita a cucchiani di caffé", impossibilitati a sederci ad un tavolo occupato da Winona Ryder, alla quale dare appuntamento tra la Broadway e Franklin. Inoltre quei due help sono un grido interno destinato a svanire repentinamente: i vip chiedono di essere salvati da loro stessi, rivolgendosi a se stessi, ma, consapevoli di non avere esistenza al di fuori di quella concessa dagli sguardi dei tagliati fuori, inscenano una vetrina per esagerare l'invasività delle loro vite inutili e anche quella richiesta d'aiuto è soltanto scena. E di nuovo, come per Festen, mi viene in mente l'Angelo Sterminatore: se non possono uscire, ben gli sta, però non mi chiedano di essere complice delle loro pratiche oscene. Infatti Allen è troppo intelligente e non ha inserito gratuitamente la trivialità nella sua spenta e senile vis comica: voleva proprio indicare il degrado della mondanità; peccato che poi gradualmente si compiaccia della base volgare delle pratiche salottiere, lasciandosi irretire dal vuoto siderale che le scurrilità coprono.

L'unica sequenza veramente ineccepibile è quella che vale il piano sequenza in ospedale di Tutti dicono I love you o le inquadrature sul tavolino nel bar di Broadway Danny Rose; si tratta della scena del secondo incontro con Nora, verso l'epilogo. In essa la macchina da presa ondeggia, ubriaca di chiacchiere a vanvera di alcuni avventori, facendo perno ora su una fatua bocca, subito abbandonata cercando un fulcro più consistente in un asse di dialogo, incapace di sostenere alcun argomento, ora sciamando verso una scambio di sguardi meno frivoli, che spostano l'attenzione su un elemento esterno al microcosmo sterile del tavolino mondano, dal quale si riesce ad uscire soltanto estraniandosi e di qui l'insopportabile clone Branagh coglie finalmente l'impulso ad alzarsi. E saremmo tentati di seguirlo, recuperando al guardaroba il cervello ottuso dall'assordante vuoto. La sequenza vale proprio perché è l'unica in cui Allen riesce a rappresentare la futilità in cui, come per un incantesimo, è immerso il resto del film, di cui non si comprende la motivazione, se mai esiste nella accozzaglia di situazioni slegate e affastellate tra loro con cliché ed espedienti da mestierante, comprese le astuzie di autodenunciarsi come cinema di maniera, realizzato da un regista "stronzo che si ostina a filmare le sue pellicole in B/N". É come se Woody ci dicesse che non riesce più a fare altro che ripetere asfitticamente la propria maniera, clonandosi in tanti caratteri che sono tutti lui: Melanie Griffith che dice: "Mi sdraiavo sul letto e guardavo il mio corpo svilupparsi" proviene dal vecchio immaginario disturbato di Allen, la cui malattia conclamata trova rappresentazione nei due suoi altri frammenti di super-Io: Branagh e la moglie Robin (due volte definiti malati).

L'assunto, se esiste un filo conduttore che ricolleghi la serie di situazioni slegate, può forse ritrovarsi in una rimeditazione auto-flagellante del regista sui suoi topoi: molti vengono ripercorsi e riproposti in versione scadente rispetto agli originali, quasi che l'autore stesso preso da furia autodistruttiva volesse cancellare sequenze egregie, volgarizzandole con la parodia peggiorativa. Molto del suo cinema viene banalizzato: il ponte del film di diciotto anni fa è inquadrato dalla parte opposta, quasi un sintomo del fatto di ritrovarsi sull'altra sponda; la coppia di Mariti e Mogli si muove uguale a se stessa in un altro ambiente, altrettanto statunitense, mentre tutti sembrano voler seguire il percorso inverso a quello coperto da Jeff Daniels, assorbiti dallo schermo a cui egli si sottraeva in La Rosa purpurea del Cairo, il cui décor si ritrova negli ambienti ovattati stile anni trenta dell'albergo di Di Caprio.

Ritroviamo poi i suoi stereotipi razzisti (confermati dalle sue certezze sioniste anti-irachene) nella descrizione della famiglia italoamericana, uguale a quella di Broadway Danny Rose o Pallottole su Broadway, ma senza la voglia di scardinare tutto l'impianto, anzi le allusioni a Clinton sono un altro modo di sostenerlo, pubblicizzando bonariamente le abitudini sessuali presidenziali, suo compagno di sventure moraliste (d'altronde la passione per ragazze giovani data fin dalla Hemingway di Manhattan). Ma pure il gazebo o le infinite riprese da fuori del parabrezza della Aston Martin sono luoghi retorici, come l'intervista alla puttana: una ulteriore autocitazione, che sembra fatta apposta per ammantare di pacchianeria il ricordo del personaggio di Mira Sorvino in La dea dell'amore.

Gli stessi passaggi di montaggio, come sempre lievi e quasi impercettibili, sono mestiere al servizio di un testo inconsistente proprio nei raccordi di una materia slegata; e la maestria del tratto esaspera per contrasto l'idiozia priva di guizzi comici del dialogo. Una pochezza che non risparmia il più vieto dei suoi luoghi comuni: lo psicanalista presente al momento della banalissima presa di coscienza del vecchio quarantenne posto di fronte alla propria senescenza durante la solita rimpatriata tra vecchi compagni di liceo. Le perplessità provengono non dal bric à brac gettato sullo schermo, ma da quello che manca: non c'è traccia della battuta fulminante che segnali il disgusto verso quei prodotti della società americana, ma traspare solo compiacimento per l'appartenenza al mondo dei lustrini che gli consente di dire stupidaggini imperialiste ai tg nostrani: proiettandosi oltre il proprio personaggio, si priva del guizzo ironico che lo rendeva accettabile.