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The Hole Anno: 1998 Regista: Tsai Ming-Liang; Autore Recensione: l.a., G.F. Provenienza: Taiwan; Francia; Data inserimento nel database: 09-07-1998
The Hole - Il buco
The Hole - Il buco
Tit. or.: The Hole; regia: Ming-Liang Tsai; sceneggiatura:
Ming-liang Tsai, Pi-ying Yang; fotografia: Pen-jung Liao; scenografia:
Pao-Lin Lee; montaggio: Ju-kuan Hsiao; cast: Kang-sheng Lee, Hui-Chin
Lin, Tien Miao, Hsiang-Chu Tong, Kuei-Mei Yang; produzione: Haut
et Court/Arc Light Films; Taiwan/France, 1998; durata: 1h e 35'.
Spazio: una metropoli (Taiwan?), un palazzo: due appartamenti,
uno sull'altro. Tempo: l'ultima settimana del millennio.
I Protagonisti: un uomo e una donna; Lui nell'appartamento
"sopra", Lei in quello "sotto"; due solitudini
in parallelo, separate da una soletta. Contesto Drammatico:
una misteriosa epidemia decima la popolazione; portatori del virus
sono gli scarafaggi; i contagiati assumono i modi delle blatte,
evitano la luce, strisciano veloci a quattro zampe, si nascondono
in buchi e fessure. L'Incidente: una tubatura rotta (una
delle tante); un idraulico che apre il buco nel pavimento
di Lui, ovvero nel soffitto di Lei; le parallele convergono in
un punto (di contatto: prima visivo, poi fisico).
Se dovessimo individuare delle parole chiave per mettere a fuoco
il sistema nervoso di The Hole, per mapparne i percorsi
interni, avremmo l'imbarazzo della scelta: «metropoli»
e «fine-millennio» sono quelle più macroscopiche
e dichiarate; «inquinamento» e implicita vena «ecologista»
viaggiano a un livello appena inferiore; «metamorfosi»
e «Kafka» costituiscono un asse lampante con «oscurità»,
«epidemia», «incubo»; l'«acqua»
è l'elemento simbolico che, dilagante, collega ogni altra
voce tanto da spingere alla definizione ad effetto «film
subacqueo» (se sommato all'effetto di rallentamento sortito
dalle soluzioni formali e dal lavoro sul suono); ma «solitudine»
e «incomunicabilità» sembrano essere i punti
cardinali principali della realtà proposta dal regista,
due facce della «peste» che porta alla morte passando
per l'immobilità, il silenzio, l'asfissia, la nausea, l'abbrutimento.
Un possibile percorso potrebbe portare a considerare The
Hole come una rilettura in chiave minimal-esitenzialista-intimista
del disaster-movie o, magari, del diluvio universale; più
semplicemente ci troviamo di fronte a una rappresentazione della
condizione umana contemporanea ad alto tasso simbolico, quasi
un'allegoria eppure, quasi svuotata per eccessiva pienezza, ridotta
ai minimi termini, spogliata, scarnificata, e meticciata, contaminata,
con il racconto di suspense. Tsai Ming-Liang congela la materia
con il suo stile fatto di lunghissime inquadrature e piani sequenza,
sovrascrive il surrealismo con il realismo, propone l'immobilità
come labirinto: ogni segmento è ridotto ad infinita istantanea
del silenzio; la location si fa inquadratura; il dialogo è
lavato via dal noise del tragico diluvio di acqua sporca e spazzatura
esterno; il dramma sembra svolgersi fuori campo, altrove, e raggiunge
il nucleo solo in modo mediato, attraverso i bollettini radiofonici
o televisivi... In The Hole tutto è «fuori»
eppure/oppure è «dentro»: un buco nel pavimento
è anche un buco nel soffitto, questione di punto di vista.
Nato come tv-movie di cinquantotto minuti di durata sul tema "fine
millennio", The Hole è stato gonfiato fino
al metraggio corrente per la distribuzione nelle sale introducendovi,
incastrandovi, i cinque siparietti musical in stile anni
'50 che lo scandiscono cadendo regolarmente subito dopo i passaggi
di snodo drammatico maggiori. I «numeri di canto e ballo»
vanno a sottolineare le «cerniere del racconto», i momenti
chiave della progressione, per "contrasto" e per "slittamento":
precise schegge intertestuali che fanno riferimento a un genere
(il musical) e a un'epoca (le canzoni sono della diva anni Cinquanta
Grace Chang) vivono di tutti quegli elementi che sono volutamente
assenti nel resto del corpo narrativo (la musica appunto, e attraverso
essa la parola; la componente spettacolare esplicitata dalla componente
coreografica; i movimenti di macchina, il montaggio...); rappresentano
poi un passaggio ad un piano onirico focalizzato sull'interiorità
della protagonista: nell'incubo dilagante che è costretta
a vivere, Lei riesce a ritagliarsi questi spazi di edulcorazione
in cui il colore prende il sopravvento sul grigio, il muro sonoro
di rumore di fondo scrosciante viene abbattuto e rimpiazzato dalla
melodia, il non detto (il silenzio della parola) trova sfogo articolandosi
in canto, la staticità si fa movimento, il corpo diventa
plastico strumento espressivo, la contrazione dell'incomunicabilità
si scioglie in fluidità ipercomunicativa. Eppure questi
squarci nella plumbea texture dominante nuocciono nell'economia
complessiva (che d'altra parte, come detto, era stata concepita
senza questi «quadri»): valvole di sfogo concesse allo
spettatore, sortiscono un effetto straniante che spezza, anche
in conseguenza dell'eccessiva durata dei siparietti, la suspense,
la sua crescita: l'ipnotica ossessività dominante che costituisce
la chiave della tensione si sposta pericolosamente verso la noia;
la cupa indecifrabilità dei personaggi trova una schiarita
e l'enigmatico spazio che li separa dallo spettatore diminuisce;
l'atmosfera surreale viene sbalzata sul piano del grottesco in
virtù di un'ironia più anelata che riuscita...:
la morsa dell'incubo si allenta per (questi) lunghi attimi, e
quando vi si ripiomba è solo un brutto sogno. Come
un bel racconto che si è voluto trasformare in romanzo
breve mettendoci dentro pagine di divagazioni...
l.a.
Temi, motivi, continuità: un profilo
TSAI MING-LIANG
Se non si corresse il serio rischio di dire qualcosa di assolutamente
abusato nella speranza di risultare originali ed esaustivi, si
potrebbe tranquillamente affermare che quello di Tsai Ming-liang
è «cinema d'autore» che si forma, si esprime,
si rimodella lungo tutto il suo corso filmografico. Un cinema
della fluidità quello del regista taiwanese, da
intendersi nella doppia accezione tematica e discorsiva, come
racconto che si serve simbolicamente dell'elemento «acqua»
per comunicare allegoricamente il male di vivere dei personaggi
che abitano un dato (ed impostato) universo; e come modalità
di una messa in scena che si serve di lunghi ed estenuanti piani-sequenza
in cui corpi sofferenti e malati (d'esistenza) si muovono lentamente,
sfiorandosi, in certi casi toccandosi anche in modo sensualmente
insistito (le scene di contatto carnale di Rebels of the Neon
God ed Il fiume sono indicative in tal senso), ma lasciandosi
andare sempre alla deriva di una situazione che non sono più
in grado di controllare. All'interno di questa fluidità
oscillante tra il piano denotativo ed il suo consequenziale livello
connotativo, Tsai Ming-liang dà la netta impressione di
plasmare ognuno dei suoi film con minime variazioni, con pressoché
impercettibili differenze di formulazione. Le pellicole diventano
allora autentiche puntate di un dramma sull'individuo i cui diversi
capitoli, con caratteristiche comuni nell'ambito espressivo, danno
la misura della situazione contingente dell'uomo (non solo taiwanese)
nel panorama attuale.
Fin dal suo primo lavoro (quel Rebels of the Neon God che
vinse il Festival Cinema Giovani di Torino nel '93), Tsai
Ming-liang gioca con i suoi personaggi, li inserisce in una realtà
in cui si trovano ad essere alieni, li mette ai margini per gli
scompensi presenti nella struttura stessa della società,
oppure fa in modo che essi si autoreleghino in un microcosmo soffocante
e spersonalizzante. I personaggi intrappolati in stanze da cui
non si può uscire a causa della solitudine che attanaglia
sono l'immagine iconografica di una totale mancanza di comunicazione
tra gli individui, capaci solo di osservare un buco dalla propria
posizione (The Hole) o di piangere prendendo coscienza
del proprio triste stato (Vive l'amour). Gli sguardi sconfortati,
i movimenti coartati, le sensazioni guidate, i pianti strazianti
sono l'immagine di una sensibilità che deve fare a meno
della parola per mostrarsi: la verbalità per Tsai Ming-liang
è un inutile orpello che non fa altro che dimostrare tutta
la sua ridondanza nel restituire un mondo che non può comunicare,
stretto com'è nella morsa della solitudine e dell'egoismo.
Il punto di vista della macchina da presa (e quindi dell'autore)
restituisce, paradossalmente, data la caratterizzazione dei personaggi,
un mondo pieno di profondità, in cui nella scena (intesa
come luogo) si aprono tutta una serie di opzioni e possibilità
(leggi porte, accessi che palesano la possibilità per le
figure di muoversi in uno spazio più ampio di quello che
li caratterizza) che rendono evidente l'autocostrizione a cui
si sottopone l'uomo moderno, oltre che mostrare un certo calligrafismo
con l'effetto del quadro nel quadro. Tutt'intorno, nella
pervasività di un ambiente che si pone come degno corollario
dei personaggi che con esso interagiscono, si pone la fluidità
dell'acqua, solitamente elemento rigeneratore, quindi ancora più
beffardo simbolo di una deriva esistenziale che usa ogni mezzo
a sua disposizione per comunicare il suo effettivo stato ad un
pubblico che vive e soffre insieme ai disperati personaggi.
G. F.
filmografia di
MING-LIANG TSAI
1998 The Hole
1997 He Liu (Il fiume)
1994 Aiqing wansui (Vive L'Amour)
1992 Ch'ing Shaonien Na Cha
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