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The Hole
Anno: 1998
Regista: Tsai Ming-Liang;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Taiwan; Francia;
Data inserimento nel database: 15-06-1998


Tsai Ming Liang

The Hole

Regia: Tsai Ming-Liang
Sceneggiatura: Tsai Ming-Liang, Yang Ping Ying
Fotografia: Liao Peng-Jung
Scenografia: Lee Pao-Lin
Interpreti: Lee Kang-Sheng, Yang Kuei-Mei
Miao Tien, Tong Hsiang-Chu, Lui Hui-Chiu

Produzione: Arc Light Films, Haut et Court
Formato: 35 mm.
Durata: 115´
Provenienza: Taiwan
Anno: 1997

Il buco nel pavimento, o nel soffitto a seconda del punto di vista che ci viene proposto, è un collettore di tutto il millennio con un passaggio biunivoco di liquidi, gas, rumori e solidi. E diluvia.

Viene giù a catinelle.
Un basso continuo fatto di scrosci di pioggia incessanti, nel senso che non esiste fotogramma a cui venga concessa una tregua dal diluvio e le nostre orecchie ne sono riempite. La presenza sonora dell´acqua è costante e invasiva: sotto forma di bacinelle strabocchevoli, rubinetti che perdono, fenomeni atmosferici irrefrenabili, secchi come elementi di arredo, lavandini stracolmi; persino il pattume attraversa lo schermo come se piovesse.

La facoltà di parola, concessa quasi esclusivamente agli apparecchi televisivi, accesi ad informare un´umanità latitante dell´epidemia kafkiana che riduce la gente a comportarsi come gli scarafaggi, si manifesta su schermo nero e nella quasi totale indifferenza delle figure che si aggirano sullo schermo.

It´s raining cats and dog. Per aggiungere oppressione angosciante è sufficiente rimirare la desolazione nell´angustia di quegli appartamenti. Il grado zero del concetto di domestico, la sciattezza dell´abbigliamento (maglietta e mutandine per entrambi), il senso di casa spoglia trasmesso ancora prima che le pareti comincino a grondare umidità ed il letto prenda a galleggiare, gettando comprensibilmente in quella forma di sconforto, a cui Tsai Ming Liang ci ha abituati; a pochi minuti dalla fine l´inquilina sembra comprensibilmente iniziare una lacrimazione parallela alla pioggia e cominciamo a temere un altro irrefrenabile pianto come nell´epilogo di Vive l´amour. Poi la crisi si risolve nei primi sintomi dell´epidemia. Intanto le cataratte dal cielo non accennano a smettere... e ciò non aiuta a sollevare il morale.

In compenso, come sottolinea il regista forse con scherno, ma anche con la tenerezza che lo contraddistingue nel tratteggiare i caratteri delle ragazze delle sue opere, si aprono siparietti onirici attribuibili ad entrambi i protagonisti:
in queste coreografie da avanspettacolo degli anni ´50 si possono ammirare momenti di distensione kitsch fatti di lustrini, paillette, calypso e cha-cha-cha tratti dal repertorio di Grace Chang, una specie di Delia Scala targata Taiwan, di cui mantiene il carattere consolatorio, accentuato dall´ambientazione degli sketches che si svolgono nello stesso fatiscente condominio e dunque promettono redenzione.
È interessante notare che essi seguano un andamento parallelo all´interazione tra i due giovani e ricalchi esattamente i momenti tipici della rivista con gli invariabili screzi tra appartenenti ai due sessi e classico lieto fine riconciliante:

        il calypso iniziale si svolge in ascensore, la cantante emana in solitudine la propria seduzione e al termine del sogno la porta dell´ascensore si apre sul vicino ¨sverso¨, completamente ubriaco, tanto che farà passare attraverso il buco il suo vomito; la canzone Tiger Lady è il tipico momento di rivendicazione femminile (ma non femminista): alla giovane soubrette si aggiunge un coro di tre ragazze di supporto, come gli interventi di Aretha Franklin nei due Blues Brothers; il terzo momento musicale coinvolge già il vicino, la canzone di repertorio fu inserita in Italia in Buona Notte Bettina (in periodo non ancora funestato da Craxi); uno starnuto scatena un provocante cha-cha-cha ballato sulle scale di una scenografia degna di Wanda Osiris, che prepara al gran finale e cioè il ballo allacciati dei due finalmente riuniti. Un rifugio dal cataclisma idrico scatenatosi una settimana prima del duemila.

L´esistenza del giovane si svolge compressa tra uno stato di quasi ipnosi narcolettica e la gestione dell´unico spaccio aperto di un mercato desolato ed abitato soltanto da un gatto. Il deserto è l´altro aspetto rilevante oltre all´umidità ed entrambi questi elementi rendono Antonioni un dilettante dell´incomunicabilità al confronto della desolazione di Taipei, dove le uniche parole che si sentono riportano la richiesta da parte di un vecchio di una salsa fuori commercio da anni, ad accrescere il senso di struggente malinconia di un passato che non doveva essere neanche tanto roseo. Dopo mezz´ora di umidità i due non si sono scambiati ancora una qualunque comunicazione, i primi segni di attenzione si riducono ad un biglietto appeso sulla porta e l´insetticida spruzzato attraverso il buco.
Sconcertante la penetrazione del buco con una gamba, che rimane inquietante a penzolare dal soffitto, uno dei pochi sguardi davvero originali del film per il resto più noioso di questa recensione.
Persino un bimbo trascorre da un campanello all´altro con la sua bici, per cercare un qualunque contatto umano improbabile, copiando tante situazioni già viste senza aggiungere nulla.
Non può certo serenamente giocare in solitudine sotto un nubifragio di quella portata

Ma l´appartamento al piano inferiore è quello con le caratteristiche più allucinanti: infatti è la ragazza a stare peggio. E le riprese più desolate sono riservate alla sua topaia. Illuminata da una caratteristica penombra, che esagera i tratti di disfacimento; la decomposizione è palese. Però la comparsa spesso di un raggio di luce prelude al finale quasi ottimista dell´unione delle due solitudini. Questo squarcio, la cui sorgente non è chiara, taglia nella bella inquadratura lo spazio del tugurio ormai inabitabile, proiettando una luce salvifica sulla donna disperata in cima alla torre di carta igienica mentre spunta un braccio misteriosamente penzolante dall´alto: promessa di vita, se non di resurrezione (a cui iconograficamente si riferisce). Alcune situazioni rimangono impresse per la condizione deprivata della ragazza, che si trova ripresa in una posizione umiliante: mentre urina con un catino in testa, o stacca la carta da parati, che farà da umida base alla sua eccitazione sessuale, esclusivamente telefonica (¨Sai di cosa ha bisogno una donna?¨), una sequenza di onanismo che richiama certe situazioni di Wong Kar Wei, lasciandoci addirittura più indifferenti, benché la figura della ragazza sia sicuramente più concreta delle bambole artificiali hong-konghesi, ma persino meno arrapante. E, nonostante gli spunti kafkiani, non acquista rilievo l´aspetto materico, corticale. Neppure l´assenza di comunicazione riesce a commuovere nelle sue manifestazioni più clamorose, come il martello disperatamente sbattuto dall´uomo sul margine del buco, mentre teme di aver perso anche quell´infima possibilità di relazione umana, poiché lei si è sotterrata senza dare segni di vita, rintanandosi sotto la massa di carta igienica.

Probabilmente si avverte la distanza da una situazione palesemente esagerata, ma non troppo discosta da una realtà forse ancora meno accettabile, ancorché non metaforica.