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Ragazze di cittą - Girls Town
Anno: 1996
Regista: Jim McKay;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 02-12-1997


É difficile realizzare uno spaccato sulle normali emozioni di ragazze borderline al compimento della scuola superiore senza scivolare a tratti nel documentario verboso. Soprattutto se il regista è un documentarista. Jim McKay non riesce ad evitare paurosi scivolamenti nel bozzettismo, ma viene salvato da uno strepitoso gruppo di attrici, che, come nel caso di noti work in progress (Im Lauf der Zeit tra i primi), intervengono sulla sceneggiatura durante la lavorazione; il concreto stato confusionale emerge anche a detrimento dello spettacolo. Il lavoro di mise en abyme infatti va di pari passo con l'ideazione delle situazioni e quindi si trascorre in mezzo alle situazioni senza la lentezza della british renaissance, che ha lo scopo di evidenziare lo squallore in cui si agisce: qui invece gli aspetti maggiormente emergenti sono il defilamento del nostro punto di vista e l'enorme importanza dello stordimento indotto da queruli dialoghi capaci di sfinire la più fervida sostenitrice dell'autocoscienza femminista.

L'uso evidente dell'inquadratura rende sostanza la sintassi: dopo il rallenti iniziale sulla vittima con il sonoro che rimanda lo stupro che scatenerà tutto il racconto, s'inizia l'avvicinamento al mondo delle ragazze con un totale-quartiere sulle quattro protagoniste davanti al drugstore, poi gradualmente la mdp si approssima, per ingigantire le sensazioni di isolamento (dettagli, primissimi piani alla Kids, ma paradossalmente più defilati, meno voyeuristici) o di solidarietà. Quando è questo l'aspetto da mettere in risalto gli autori dispongono le ragazze nell'ambiente componendo un gruppo unito da linee immaginarie di sguardi e relazioni: l'operatore è di lato, riprende come se fossimo una presenza silenziosa (ma una presenza condizionante la percezione), che non vuole disturbare, quasi che la macchina fosse abbandonata alle proprie "affezioni", ma soggetta a movimenti discreti, seguendo la regola dettata volta per volta dai sentimenti delle tre ragazze, disposte strategicamente nell'inquadratura in base a dettami gestaltici (Arnheim). I movimenti, impercettibili e per lo più dal basso, richiamano la mitica altezza zen di Ozu, anche perché sembra che, come avveniva nei film del regista nipponico, dalle suggestioni del quadro disegnato si ricavino sia i rapporti tra loro, sia il successivo processo di presa di coscienza, conseguito attraverso la consapevolezza di non conoscersi a fondo, che viene cinematograficamente realizzata isolandole nei primissimi piani e nei particolari dei visi, fino a sfociare nuovamente nell'inquadratura del gruppo al momento in cui prendono la risoluzione di costituirsi in una banda coesa e pronta a reagire alla violenza della società maschile: "Fare qualcosa, perché quelli mica smettono". Una decisione che nasce dalla rivelazione di Emma, che svela di aver subito uno stupro, come l'amica suicida.

Da quel momento vengono affrontati molti temi e si scatenano confronti su tutti i problemi delle giovani, senza inscenare la classica riunione di autocoscienza non spontanea. E allora il martellante flusso di coscienza (lo stream of consciousness di Molly Bloom di Joyce è il facile archetipo di un'opera che si vuole femminista) tracima, toccando tutti i drammi con toni talvolta corrivi: l'aborto e la maternità come imbarazzo sono affrontati come se un film femminista non potesse esimersi dall'accennarne, mentre rivelatoria è una frase di Emma relativa ai rapporti con i maschi, anche quelli meno fallocrati: "Non ci comprendiamo sui valori reali delle cose".

Altro atteggiamento particolarmente significativo è quello esplicitato da Angela, quando tenta di spiegare alla madre il motivo della sua sospensione da scuola a causa di una lite scoppiata per una sua difesa dell'amica morta. Alla domanda se fosse servito a qualcosa lo scoppio d'ira, la ragazza risponde: "No, ma è stata una gran bella sensazione", conferendo il senso a tutto il film, e non solo alle azioni ribelli, che connotano l'adolescenza a tutte le latitudini. Di nuovo la funzione apparentemente discreta della macchina da presa e dei suoi movimenti assolutamente liberi diventa essenziale, scivolando sempre più verso il cinema-veritée, una sensazione di atteggiamento acritico, che svanisce talvolta, come l'inquadratura commentativa che pone fine alla sequenza del saccheggio della dimora del violento Jody, il padre della bambina di Patti, la splendida Lili Tylor: una ripresa che mostra le tre ragazze di spalle e la mdp che arranca dietro di loro, come a sottolineare che hanno preso ormai l'iniziativa. Sono decise e non si fermeranno facilmente; si può solo stare a vedere. E ascoltare. Perciò subiamo un lungo sproloquio sul college ripreso nuovamente di fronte alla grocery.

Il torrente di parole femminili a questo punto ha sfondato ogni argine e prosegue anche sui titoli, rendendo palese il bisogno principale: uscire dal soffocamento della comunità di provincia e quindi risulta ridondante e banale introdurre il treno, la luna, il tramonto, il college lontano. Finalmente.

L'intera opera oscilla tra amenità come quelle di cui è infarcito il finale ("Un treno mi corre nel cervello. Non vedo l'ora di andarmene".) e la decisione con cui invece si affrontano, con maggiore freschezza, i malesseri e i traumi delle adolescenti.