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Will Hunting. Genio Ribelle - Good Will Hunting
Anno: 1997
Regista: Gus Van Sant;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 18-03-1998


Gus Van Sant: come liberarsi dalla dipendenzadell'essere indipendenteI più forse rimarranno delusi: Gus Van Sant, icona di uncerto modo d'intendere il cinema indipendente nella sua forma e neisuoi contenuti più estremi, si riconcilia con quel mondo cheaveva sempre avuto in uggia e realizza un racconto pulito, bendelineato, senza forzature, senza quelle intemperanze stilistiche edimpennate visive che avevano portato i "Cahiers" a definirlo ilprodotto più interessante apparso nel cinema americano negliultimi dieci anni. Good Will Hunting (da noi tradotto, nellanostra stupida voglia di riassumere il puro livello denotativo delleimmagini, semplicemente in Will Hunting, genio ribelle, dalnome del personaggio protagonista della pellicola), in effettiè un film che si circostanzia bene lungo tutta la sua catenanarrativa in virtù di una macchina da presa che si mette alservizio della recitazione degli attori, lasciando loro lo spazionecessario affinché il significato dell'opera maturi ed emergaattraverso i lunghi confronti tra psicologo e psicologizzato, egrazie all'accurata caratterizzazione dei personaggi. Nonostante VanSant sia stato chiamato a girare Good Will Hunting dopo larealizzazione ed il deposito della sceneggiatura di Matt Damon e BenAffleck (rispettivamente Will Hunting e Chuckie nel film, compagni dilunga data proprio come nella realtà), e malgrado criticifrettolosi si siano premurati di bollare quest'ultima faticavansantiana come "il film meno personale del regista" soltantoperché i suoi "marchi di fabbrica" più evidenti - comele nuvole che si muovono nel cielo con effetto time lapse, gliimprovvisi inserti che chiarificano/confrontano/metaforizzano ilreale, la circolarità insita nella stessa struttura dei suoifilm, l'emarginazione tossico-omosessuale ed un certo tonogrottesco/surreale nella portata del racconto - non sono presenti,Good Will Hunting non si segnala soltanto per le novenominations all'Oscar o per la classicità tuttahollywoodiana della narrazione, ma anche perché ad un'attentaanalisi le idiosincrasie di Van Sant sono presenti e benidentificabili. E sì, perché bisogna cercare fra lerighe di un modo di fare cinema, quello hollywoodiano, che si ciba dischemi e stilemi classici, dove la macchina da presa non assumeiniziative entrando dialetticamente in conflitto con le figure chepopolano l'universo che riprende, ma si limita ad illustrare, a dareimportanza al personaggio, al suo modo di essere, alle sue azioni edinterazioni. Trionfa la storia raccontata, non il modo adottato perraccontarla. Emergono le connessioni della narrazione, l'enunciatonella sua materialità, non l'enunciatore. Van Sant tuttoquesto lo ha ben chiaro: sono lontani i tempi in cui rifiutòdi girare The Major of Castro Street perché laproduzione voleva imporgli Robin Williams; Van Sant, da apocalitticoche era, si è integrato in un'istituzione dove l'importanteè incassare ed in cui la critica positiva è vistasempre in funzione del ritorno che può avere al botteghino.Però è anche riduttivo pensare al cinema hollywoodianocome un cinema spurio, incapace di suscitare emozioni negliintegralisti del cinema d'autore, convinti fermamente nella staturaromantica del cineasta indipendente. Perché non sempre"indipendenza" è sinonimo di qualità, così come"hollywoodiano" non possiede per natura lo stigma del prodottoscadente, "facile", banale. Certo, si concede un po' di più alpubblico, la comunicazione verso il fruitore della pellicola diventameno mediata, più diretta, più consapevole del suocarattere di entertainment, referenzialmente interessata allatrasmissione di un contenuto ammantato di suadente denotazione dellarealtà. Ed in Good Will Hunting i momenti disoddisfazione per lo spettatore in cerca di intensi momenti emotivici sono; la concessione al sentimento è ben avvertibile:Skylar (perché abbandonata da Will) e lo stesso Will Hunting(quando prende coscienza della sua essenza) piangono copiosamente,laddove, in tutta la filmografia precedente del regista, il pudorenel mostrare lo sfogo delle proprie sensazioni era di carattere quasiimplosivo (si pensi al dolore di Sissy dopo la morte dell'amataBonanza o al dolore masochisticamente contenuto da Mike nel venirerifiutato da Scott). Nessuna attenuazione ma grande evidenzaiconografica che trova la sua soddisfazione nella saturazionefinale: Will Hunting si congiunge necessariamente alla donnaamata al termine del suo percorso di formazione, e statisticamenteè l'unico personaggio su cui si focalizzi l'attenzionedell' istanza narrante vansantiana ad avere un futuropositivo. Infatti né Walt in Mala Noche, né Mikein My Own Private Idaho, né, molto piùambiguamente, Bob in Drugstore Cowboy e nemmenol'autostoppista Sissy - per non citare la femme fatale SusanneStone - terminavano il loro ruolo con la possibilità di unmiglioramento nel loro immediato futuro. Will invece si avvia alricongiungimento con Skylar; Van Sant non lo mostra, limitandosi asuggerirlo seguendo dall'alto la macchina del giovane - conun'inquadratura che ricorda identici schemi visivi usati nelle suepellicole precedenti - che macina chilometri sul freddo asfalto -aggiungendo tra l'altro un ulteriore significato, quello delricongiungimento, alla già nutrita galleria di sensi diversiattribuibili al topos strada nel suo cinema - mentre suititoli di coda campeggia il triste omaggio alla coppiaBurroughs/Ginsberg. È il primo finale rassicurante di Van Santed è la sua più grande concessione. Tematicamente lanarrazione oscilla tra antitesi marcate così come era stato inaltre occasioni (la più evidente è My Own PrivateIdaho): passione/dovere, emozione/freddezza,istinto/razionalità, genio/ottusità. Il mondo descrittoda Van Sant è sempre un universo dilacerato da nette divisionisociali, ideologiche o mentali che siano, ed il modo per rendereevidenti e narrabili queste fratture è sempre il ricorso adopposizioni nominali che riassumano i sensibili conflitti trapersonaggi o gruppi sociali all'interno della finzione. Il confrontotra poli opposti si offre sempre come momento supremo di sintesi deiconcetti illustrati dal regista, e ad emergere è la sua stessaideologia intrisa di anarchismo ed insofferenza alle convenzioni.Come intendere altrimenti il discorso sulla catena infinita diviolenza e sfruttamento in ottica anticolonialista che Willproferisce davanti ai funzionari governativi che gli offrono unlavoro?, oppure l'inutile pugno nello stomaco con cui un poliziottodi pattuglia colpisce un Will già immobilizzato? Inrealtà Good Will Hunting è una pellicola in cuiVan Sant porta avanti i motivi a lui cari in un'ottica differente,"hollywoodiana", meno delirante, meno immaginifica, meno estrosa esperimentale, forse più matura e consapevole, ma altrettantocertamente meno onirica e grottesca (se si eccettua la scena in cuiWill e Skylar conversano in un negozio con in volto varie maschereche distorcono la loro fisionomia). La continuità con l'operaprecedente allora, visti gli angusti limiti derivanti da una pienadigeribilità di una filmografia così personale - e conl'aggravante che tale aggettivo assume nell'ambito di un cosìfagocitante sistema - va ricercata tra le pieghe del racconto, nellemodalità della messa in scena, nel taglio stesso diun'inquadratura, in alcune presenze emblematiche. Subito, fin daititoli di testa, ad esempio, dove la visione "prismatica" dellarealtà esistenziale di Will Hunting ricorda l'incipitdi Da morire - solo per citarne uno -, dove Van Santsuggerisce le modalità che lo spettatore deve seguire perpoter penetrare nella universo fittizio della diegesi. Inquesto caso il pubblico è avvertito dalla visione distorta("prismatica", appunto) della realtà che qualcosa nelmicrocosmo di Will è visto (e quindi vissuto) in modo erroneo.Il costante dialogo con lo psicologo Sean McGuire (Robin Williams) loriporterà nei binari della normalità e loaiuterà a ritrovarsi nella capacità di provaresensazioni forti senza avere alcun timore. Il fatto che la visione"prismatica" ritorni nel momento in cui, catarticamente, Willrecupera mnemonicamente l'immagine del padre che sale le scale perbatterlo selvaggiamente, è il suggerimento vansantiano sulleresponsabilità familiari nella formazione degli individui cheda sempre infarciscono il suo cinema. Da sempre affascinato dalledisastrate famiglie che popolano gli universi teatralioff-off-Broadway di Sam Shepard, anche in questo caso Van Santnon si smentisce, rafforzando quello che già nellasceneggiatura era presente, limitandosi a ripetere un semplice schemavisivo che sostanzia e giustifica un modo di essere, rendendoesplicita e violenta, quasi per preterizione, la condanna aduno degli imperituri valori americani. E lo stesso insertosoggettivo del padre di Will - così come quello dellapartita di baseball - non è forse un altro di quegli insertidallo statuto ambiguo (sono soggettivi, ma potrebbero essereanche esplicativi perché fungono da "lented'ingrandimento" di ciò che le parole dei locutoristanno raccontando) che hanno caratterizzato il cinema di Van Santnel passato, spezzandone la linearità narrativa ed evitando leimpasse dei lunghi dialoghi che la sceneggiatura imponeva? Eparlando di montaggio, che dire della sequenza in cui Will motiva ilsuo desiderio di non lavorare per il governo, salvo poi accorgersiche la sua tirade non è avvenuta davanti ai funzionarigovernativi ma alla sola presenza del comprensivo McGuigan, e solo invirtù di un primissimo piano che non permette allo spettatoredi notare il cambiamento di tempo e luogo? Non è una variantedell'ambiguo cambiamento di tempo e luogo già avvenuto con lostretto primo piano di un Mike gaudente all'inizio di My OwnPrivate Idaho? Riferendosi alle pellicole precedenti, poi,è impossibile non notare la presenza di Casey Affleck (ilRussell stupido e costantemente eccitato di Da morire) neipanni dello stupido e costantemente eccitato amico di Will, Morgan, edi Alison Folland (Lydia, sempre in Da morire) che appare inun breve cameo a colloquio con il professor Lambeau. Che Lydia, dopoaver interpretato un film sulla vicenda Maretto-Stone, comecomunicava sul finire della pellicola, sia riuscita ad entrare inquell'oasi esclusiva che è il Mit di Boston? Sempre procedendoper consequenzialità, si nota anche come la caratterizzazionedel personaggio dell'assistente di Lambeau sia costruito come copiaconforme di molte figure presenti nei precedenti lavori di Van Sant,si pensi a Budd in My Own Private Idaho o a George in Damorire, personaggi satellite di altri ritenuti piùimportanti nell'economia narrativa. Anche i piani d'ascolto su questipersonaggi vedono simili modalità di realizzazione, coninquadrature che li ritraggono in smorfie che sottolineano sempre laloro alterità rispetto alle vicende principali, verso le qualinon possiedono alcun controllo. Da un personaggio all'altro: RobinWilliams, psicologo anticonformista, barbuto in un mondo dipersonaggi ben rasati, marginale per vocazione, amico della passionee bellicoso verso il raziocinio, nave trasportata dal tumulto dellepassioni, sembra ricalcare la figura del professor Keating deL'attimo fuggente. In realtà Robin Williams ricalcaproprio l'insegnante del film di Weir: così come era statoper David Cronenberg, William Burroughs, Ken Kesey e Matt Dillon inDa morire, i personaggi vansantiani non fanno altro cheinterpretare il loro ruolo codificato dall'immaginario popolare,culturale o consumistico che sia. Sean McGuigan è il professorKeating con molte disillusioni in più, le scelte degli attoriper Van Sant non sono mai un caso.Per terminare si potrebbero anche citare quelle che non appaionocome nient'altro che suggestioni estetiche, importanti peròperché ricordano scelte stilistiche operate anni addietro enon in funzione esclusiva di Good Will Hunting. Le scene incui la mdp penetra all'interno dell'abitacolo delle auto inmovimento, quante volte sono già state viste ad esempio inMala Noche o Drugstore Cowboy? Le inquadrature suivolti dei giovani trasportati non si cibano delle stesse suggestionipresenti in un relativamente recente passato? Nonostante sia cambiatoil direttore della fotografia (Jean-Yves Escoffier al posto di EricAlan Edwards e John Campbell), la scena di sesso tra Will e Skylar,con i suoi chiaroscuri marcati che selezionano i contorni e le forme,dando al contempo piena fisicità all'evanescenza della visionecinematografica, non è un esempio di quello che Deleuzeconsidera come un tipo particolare di montaggio internoall'inquadratura, tendente a "costruire lo spazio invece chedescriverlo", variante etero della torbida sessualità omo diMala Noche?Van Sant c'è ancora, racconta con garbo esensibilità una storia che di suo ha poco, ma in mezzo allatrasparenza delle immagini la personalità del cineasta emergegrazie alla sua inquietudine estetico-esistenziale, un po' come lafigura di quel barbone che si affaccia (gratuitamente?...) dallavetrina in cui Will e Skylar stanno sorseggiando una bibita.