Se
piovevano pietre sulla generazione dei padri, destinati a fare i conti con
la precarietà, la flessibilità e la disoccupazione, derivate da scelte
economiche neo-liberiste post-thatcheriane, botte e percosse flagellano le
schiene dei figli, a cui non viene concessa alcuna possibilità di
riscatto o di liberazione dal microcosmo, in cui Ken Loach da sempre
imprigiona i suoi personaggi, vittime condannate a restare ai margini di
una società, che da tempo ha azzerato la solidarietà e la ricerca
condivisa di un ideale per il quale valga la pena lottare.
Un film duro Sweet Sixteen, a dispetto del titolo che allude a una
dolcezza di un sedicesimo compleanno, trascorso in realtà a fare i conti
con una tragedia personale, adolescenziale e familiare, a cui fa da
contraltare una fuga solitaria lungo una spiaggia desolata e inospitale
("La mia batteria è esaurita" dirà al cellulare alla
sorella che gli sta ricordando che è un vero peccato che il suo
compleanno debba finire così!).
Il
ragazzino ha appena accoltellato il compagno della madre, uno spacciatore
di droga, che si è fatto beffe del suo disperato tentativo di offrire
alla genitrice, appena uscita dal carcere, un'esistenza normale, da
consumarsi all'interno di un appartamento ottenuto grazie al denaro
guadagnato tramite traffici illegali, un circolo vizioso che nasconde
dietro l'apparenza di giovani pony-express, che consegnano pizze a
domicilio insieme alle dosi di eroina, il desiderio di aver diritto a una
vita accettabile, laddove non esiste più la famiglia, ormai disgregata o
mai realizzata, e neppure la scuola rappresenta un modello a cui far
riferimento.
I giovani della low class di Loach, quelli che abitano il sobborgo
Greenock di Glasgow, non frequentano la scuola, vendono sigarette di
contrabbando dall'età di sette anni e i loro padri, rimasti senza lavoro
dopo la chiusura dei cantieri navali, sono costretti a sbarcare il
lunario, scegliendo di ingrossare le fila degli spacciatori o dei morti
per overdose.
Liam,
il quindicenne che ha trascorso l'infanzia in un orfanotrofio assieme alla
sorella Chantal (che qui recita la parte della ragazza madre, impegnata da
un lato a crescere il figlioletto, lavorando in un call center, e
dall'altro a far da paradigma del reale e da angelo custode al fratello,
medicando le ferite che si procura durante le risse), non ha mai
avuto il privilegio di potersi rapportare ad un modello, pertanto gli
risulta facile aderire a quello superficiale, di impronta piccolo
borghese, che identifica nella carriera e nel possesso di beni materiali
l'unica possibilità per emergere e per affrancarsi da un destino di
emarginazione.
L'acquisto di una casa, da regalare alla madre appena uscita dalla
detenzione, incarna il suo bisogno di costituire un focolare domestico mai
avuto, un luogo caldo e tranquillo per ricominciare a vivere; al contempo
la sua scelta di assecondare lo sfruttamento illecito di altri da sé per
arricchirsi finisce con il ribaltare l'accezione socialista del lavoro,
inteso come realizzazione di sé attraverso un servizio fornito alla
comunità. Liam sperimenta la miseria nella fatica di "campare",
evidenziata dal fatto che applica ad un mestiere riprovevole, lo spaccio
di droga, gli stessi meccanismi e le stesse espressioni che etichettano un
"lavoro vero". Forse la lezione del regista consiste nel farci
capire che questa è la reale natura di qualsiasi tipo di lavoro, mai
nobilitante.
L'amarezza del film consiste proprio nel descrivere una condizione
lavorativa che, pur allontanandosi dal rispetto per se stessi, riconosce
ed esalta la retorica della fatica per stimolare la volontà di far
carriera di questo ragazzino, che ha come traguardi quegli stessi che
popolano la fantasia di un lavoratore normale, il quale desidera una casa,
una macchina, una televisione e al contempo la serenità familiare. "Più
ne vendiamo [di eroina], più guadagniamo!" dirà ad un
certo punto Liam all'amico Flipper a indicare la sua assenza di scrupoli a
fronte di un profitto perseguito ciecamente. Non a caso il giovane inventa
l'escamotage del motorino, camuffato da pony-express, per spacciare la
droga, dimostrando astuzia e spirito d'iniziativa in perfetto stile
imprenditoriale, messe al soldo del guadagno che potrà ricavare dalla
vendita delle dosi.
Il
film registra anche il suo graduale passaggio dal rifiuto di fare il
lacchè dei padroni (come gli farà notare Flipper che resterà coerente,
ma solo perché tagliato fuori dal giro) alla sua perfetta integrazione
nell'ingranaggio dello sfruttamento dei più deboli (allora potrà solo
ridere alle battute del capo come un qualsiasi servo), per procurare merce
che consentirà ad altri di stordirsi e di mettere fine a un'esistenza
misera e senza alternative alla deriva.
Loach schiaccia pesantemente il personaggio al suo destino fatale,
irrevocabile e senza appello e lo fa ricorrendo soprattutto agli
stratagemmi del mestiere: l'uso del teleobiettivo riesce spesso a
inglobare - quasi per caso - nell'inquadratura un dettaglio,
apparentemente naturale, che finisce invece per assumere la cifra di
particolare metaforico; viene ad esempio ripresa più volte una ciminiera,
simbolo di un passato industriale, a ricordare come il lavoro, presente
come memoria, abbia assunto connotati diversi, degradandosi nello
smarrimento di valori sociali forti, quelli che erano capaci di cementare
una comunità. Questa mancanza viene connotata dal regista come una vera
perversione, in particolare quando Liam diventa addirittura disposto a
sacrificare l'amico o a ucciderlo lui stesso, come richiesto, ricalcando
una situazione che avevamo già visto nel film precedente (The
Navigators), quando Mick è pronto a lasciar morire un compagno, pur di
non abbandonare il precario lavoro interinale, conquistato con una
sofferenza pari a quella che il ragazzo stavolta sperimenta fisicamente
negli scontri con i pusher rivali.
Il cinema inglese di questi ultimi anni ci ha abituato ad assistere al
degrado della classe operaia (risultato della politica perseguita dalla
Thatcher), costretta a spogliarsi dei propri abiti su un palcoscenico in Full
Monty o a vivere la disoccupazione con l'amarezza che deriva dal fatto
di non poter più contare su un lavoro garantito (i film precedenti di Ken
Loach): in questo caso non c'è neanche più una classe operaia e anche le
sue peculiarità di riferimento sono state smarrite. Non esiste più alcun
scrupolo, solidarietà, dignità, solo il profitto. Il fatto che sia un
giovane a recitare questa parte è ancora più triste, come l'annotare che
non potranno vedere se stessi sullo schermo i ragazzi di Glasgow e anche
gli altri, perché la censura ne ha vietato la visione ai minori di 18
anni per via del linguaggio scurrile e soprattutto a causa di un insulto
graffitato su un muro. Tutto questo è vergognoso.
Man
mano prosegue nel suo corpus, Loach finisce con lo storicizzare la
disoccupazione del lumpenproletariat, documentandola in
tutti i suoi stadi: tre generazioni di senza lavoro. Il nonno è ridotto a
fare il corriere della droga, nascondendo le dosi di cocaina nel canile,
il compagno della madre è uno spacciatore, il padre di Flipper è morto
per overdose, la madre è finita in carcere per traffico di stupefacenti,
il figlio si dà al commercio organizzato, pulito nelle vene, ma solo per
sfruttare meglio i suoi pari tossicodipendenti. Un vero inferno, senza via
d'uscita.
Il regista non salva il ragazzo, ma nemmeno lo condanna: preferisce
seguirne i percorsi erratici, per quanto sia fatale per Liam seguire il
suo destino, a cui viene dato uno spessore emotivo, derivato dal fatto di
essere comunque giovane, non innocente, ma realmente bisognoso di trovare
punti di riferimento stabili nella propria esistenza.
La presenza di un coltello, come in Gangs of New York di Scorsese,
sarà determinante: compare la prima volta quando glielo offre l'amico, ma
Liam lo rifiuta, cerca di usarlo durante una prova, ma viene fermato,
ritorna in scena quando Flipper si ferisce da solo, ma sarà impugnato
solo per accoltellare l'amico della madre. Era inevitabile, l'arma doveva
essere utilizzata e l'epilogo finisce con il diventare davvero fatale.
L'ultima opera del regista inglese assume così la valenza di un romanzo
di formazione, che indaga il progressivo accentuarsi del disagio giovanile
senza cedere alla retorica, né a false commozioni: cinema aderente al
realtà, senza essere neorealista e nemmeno dogmatico. Non ci sono
stavolta lezioni da imparare, l'autoreferenzialità del microcosmo filmato
ha il sopravvento sul messaggio da cogliere e interiorizzare.
Se nella interpretazione fornita da Cacciari dell'Angelus Novus di Benjamin, l'unica possibilità di successo dell'afflato rivoluzionario insito nell'Angelo è iscrivere la propria rivoluzione all'interno della tradizione per ottenere il riscatto di tutti gli sfruttati di tutti i tempi - e dunque l'affrancamento si dà solo quando è espressione e fatto in nome di tutti -, allora Liam non può che fallire la propria ricerca di liberazione, perché compiuta solo per se stesso e su presupposti estranei alla propria tradizione in quanto rielaborata sul modello borghese (sul cui parallelo Loach insiste molto attraverso battute che usano gli stereotipi del carrierismo e del liberismo), a lui precluso per appartenenza, alieno e inadatto alla sua figura: una proiezione - falsa, derivante da un suo puro desiderio, che ai suoi occhi si compie, ma è frutto solo di una frustrazione infantile, dall'abbandono da lui scontato rifiutandone l'accettazione - di un mondo estraneo che lo destina al fallimento.
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