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Bàttu
Anno: 2001
Regista: Cheick Oumar Sissoko;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Senegal; Mali;
Data inserimento nel database: 28-03-2001


Bàttu
Visto all'12 festival internazionale del cinema africano - Milano

Bàttu



 



Regia:  Cheick Oumar Sissoko
Sceneggiatura:  Joslyn Barnes, tratta da La Grève des bàttu di Aminata Sow Fall
Fotografia:  Geary McLeod
Montaqgio:  Eric Armbuster
Musica:  Angélique Kidjo

CAST

Isaach De Bankolé,
Félicité Wouassi,
Makéna Diop,
Danny Glover

Produzione: Emet Films, 59, rue Claude-Decaen, Paris
Durata: 105'
Anno: 2001
Nazione: Senegal Mali

Eccellente e rigoroso - non a caso è il regista di La Génese, vincitore l'anno scorso - gioco di colori, assimilabile non tanto a quello di Traffic, dove i filtri servono a identificare una situazione rispetto a un'altra, quanto a Mambety, che donava una particolare pasta cromatica alla sequenza della nonna della piccola strillona, anch'essa mendicante: qui i momenti di contatto con il mondo della questua, centrale a tutto l'intreccio, sono esibiti in una particolare sovraesposizione che conferisce un'aura particolare alla presenza sullo schermo soprattutto di taluni dei mendicanti più carismatici, vicina a una forma spirituale più limpida di tutte quelle elencate: il marabut che esce dalle favole o il serigne contemplativo, onesto ma distante dalla realtà.

 

Il film si compone di momenti lirici alternati a potenti bordate di impegno e sentenze che giungono opportune a concludere un pensiero visivo. Come nel caso della visita pietosa alla madre da parte del funzionario dalla cui ossessione prende avvio la storia, un momento preparato da un racconto edificante, fatto su una spiaggia, durante il quale s'inizia la trasformazione del giovane, genialmente intrecciata allo sviluppo della corruzione e al declino del suo potente capo ambizioso e disposto a umiliarsi e a comandare il massacro degli inermi (come un questore Izzo qualunque), a piegarsi al dileggio del potente e a dare spiegazioni pretestuose al suo criminale operato.

Ogni elemento si attorciglia attorno alla capacità di comprendere cosa avviene quando si riceve e quando si dona. Un motivo ricorrente, ripetuto in molte situazioni diverse da personaggi che incarnano differenti approcci alla vita, ma accomunati da una profonda religiosità personale, che non è rappresentata né dai marabut, né dalla pelosa elemosina dei devoti che operano nel più gesuitico do ut des, evidentemente piaga di ogni religione. In questo modo la guerra ai mendicanti, descritta nel libro a monte del soggetto a partire da un avvenimento davvero ordito ai danni dei poveri di Dakar per squallide ragioni di turismo, diventa quasi pretesto per aggiungere una nuova puntata al viaggio spirituale di Sissoko, questa volta piegata alla definizione di atteggiamenti relativi alla trasformazione della solidarietà, come in La Génese utilizzava il testo sacro per rimeditare su tutte le forme di rappresentazione del racconto epico, esasperando ogni dettaglio, in particolare quelli dei luoghi e dei gruppi e delle diverse componenti della società. E in questo caso rimane l'attenzione alle differenze minime tra i singoli che creano un coro, un'unica sinfonia che ben si adatta al tema, marxista, della ridistribuzione.

Tra i momenti più lirici sembra classico il personaggio di padre Diop (altro omaggio a Mambety narratore) che spiega il movimento di "dare e ricevere", dapprima riempiendo la scodella vuota della bambina piangente convogliando lì il contenuto delle scodelle degli altri ragazzi, per poi ridistribuire a tutti secondo i bisogni: in un gesto rilancia la dignità della parola comunista, dopo lo strame fatto dalle organizzazioni sedicenti tali, prima di cambiare nome. Sissoko riesce a restituire il significato di comunità all'insieme di esclusi che abitano la bidonville, poi attraverso il ruolo di griot che incarna nelle notti illuminate da fuochi, talvolta caldi, con riverberi che evocano il falò nella savana, accogliente, talvolta le faci sono solcate da lingue sinistramente fiammeggianti nel buio in cui le torce scandagliano indagatrici lo schermo. Nel primo caso padre Diop prosegue la spiegazione di cosa sia "dare e ricevere", narrando di un vecchio marabut che incarna realmente il male, con occhi da serpente (lo troveremo alla fine consulente dell'arrivista Mour; ed il simbolo del male striscia anche nell'anello del nuovo vicepresidente Danny Glover, che recita in inglese, malamente doppiato in francese); infine con l'esempio si manifesta il "dare e ricevere", rischiando e morendo per i debiti di Madi, massacrato brutalmente dagli sbirri del questore Izzo di turno. Brutalmente aizzati contro i mendicanti dal padre di Raabi, ragazzina sensibile, radical, che interviene a difesa di Saar, il cieco assalito dai poliziotti sotto i suoi occhi.

La maestria dello sceneggiatore si manifesta nella capacità di controllo delle molteplici evoluzioni di tante personalità diverse: incastonare il disagio della ragazza, rendendo plausibile le dimostrazioni di piazza da lei inscenate e organizzate contro il padre, insieme alla rabbia del cieco e sintetizzare la distanza tra i due, nonostante la comunanza di idee, attraverso il gesto di restituzione del denaro da lei consegnato nella baraccopoli, con un bel dettaglio che racchiude la grazia e l’indisponibilità a ricevere a quelle condizioni e il dispiacere e la comprensione di non poter dare, è un’impresa pari a quella capace di raccontare l’evoluzione del giovane ossessionato dai mendicanti – ma in realtà dalla povertà della propria infanzia – che trova le giuste tappe per apparire accettabile nella sua autoanalisi che lo porta alla sequenza clou della sua storia: l’incontro notturno con la madre (i notturni sembrano racchiudere una dimensione di racconto che riconduce al griot), dignitosa povera che ha allevato i figli in solitudine e per questo incarna la breccia che consente al giovane di superare la sua avversione verso i mendicanti, che invece l’aveva racchiuso nel suo abitacolo nella sequenza iniziale pregna di una luce elettrica, fredda che si rifletteva nella sua auto in un sordo blu repellente.

La notte dunque è il momento ideale per enunciare i cardini del film (almeno quanto è solare invece il racconto biblico della genesi): prima in una delle discussioni assembleari nel campo di notte Saar aveva pronunciato una frase che condensava amaramente l’ipocrisia di chi elargisce elemosine: "Lo fanno per loro, non per noi", scoperchiando così la ferita maggiore per la spiritualità autentica – e laica – di cui è pervaso il film. Questa sarà la tesi che verrà dimostrata platealmente dal direttore dell’Ufficio di Sanità Pubblica (esagerando un po’ i toni e il carattere di Mour che rischia di diventare bozzetto), suo malgrado impedito nel suo voto di carità pubblica – in un contrappasso schernente per la scelta di fargli cercare accordi con i suoi perseguitati affinché tornino a fare ciò per cui lui li ha cacciati – dagli stessi beneficiari dell’atto di interessatissima elargizione. Anche la madre di Keba nella notte pronuncia una frase che è una staffilata ("Accettati come sei, anche da uomo povero, non significa accettare la povertà"), solo parzialmente attenuata dal riconoscimento che in quel modo egli ha trovato la strada per diventare un uomo; umano finalmente. Allo stesso modo di notte Mour sveglia la moglie, incapace di dormire per il rimorso di doverle rivelare che sposerà una seconda moglie (coetanea della figlia), per prestigio e per adeguarsi agli affari anglofobi.

Procedendo nel film e nei suoi molteplici racconti ramificati da un'unica idea, ci accorgiamo che "Nous concerne tout", detto da Raabi, è il vero interesse di Sissoko: senza venirne appesantito, il film si occupa di tutti gli aspetti della attuale condizione delal società africana, apparentemente trattando solo il problema dei mendicanti, però per accumulazione in tv cominciano a scorrere le immagini dei sans papier parigini che sono connessi non solo dalle botte di tutti gli "Izzo" del mondo; le differenti formalità religiose vedono nela cialtroneria del marabut qualcosa di comune al serigne e anche alla disposizione coranica della zekha; persino le figure dei mendicanti sono coinvolte dalla trasformazione che investe la società, tanto che Saar dice, dispiaciuto e con nostalgia per figure come Diop, che ci sono tanti livelli di povertà: "Prima eravamo intenti a sopravvivere, ora siamo impegnati a gestire la ricchezza", quello che proviene dal fatto che sono stati deportati a centinaia di chilometri da Dakar e lì ricevono elemosine e mezzi di sostentamento, che lli stano mutando geneticamente, non solo sono stati allontanati, ma figure eversive e "comuniste" come Diop saranno solo più un ricordo. Manca la poesia della vecchia baraccopoli, distrutta un’altra notte di ruspe e allucinanti torce che con la loro luce estirpano definitivamente quel mondo, non a caso l’episodio è montato immediatamente dopo il tramonto che illumina lo struggente funerale di Diop.