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The Insider
Anno: 1999
Regista: Michael Mann;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 12-03-2000


Insider
Regia di ..................... MICHAEL MANN
soggetto di  ................. MARIE BRENNER, ERIC ROTH E MICHAEL MANN
prodotto da .................. PIETER JAN BRUGGE E MICHAEL MANN
produzione ................... TOUCHSTONE PICTURES
distribuito da ............... BUENA VISTA
durata ....................... 2 h 38'
concluso ..................... 5 novembre 1999


Lowell Bergman................ AL PACINO Dr. Jeffrey Wigand............ RUSSELL CROWE Mike Wallace.................. CHRISTOPHER PLUMMER Liane Wigand.................. DIANE VENORA Don Hewitt.................... PHILIP BAKER HALL Sharon Tiller................. LINDSAY CROUSE Debbie De Luca................ DEBI MAZAR Eric Kluster.................. STEPHEN TOBOLOSKY Richard Scruggs............... COLM FEORE Ron Motley.................... BRUCE McGILL Helen Caperelli............... GINA GERSHON Michael Moore, Mississippi Attorney General nella parte di se stesso

"È la stampa bellezza"
Tempo del giornalismo d’assalto

Il lavoro del regista di Heat s'inizia su una ripresa che si rivela poi essere una soggettiva della benda che copre gli occhi del giornalista; anzi è una falsa soggettiva che avvolge gli spettatori nella garza, aggiungendo un ulteriore livello di manipolazione. Per una corretta disamina della falsa soggettiva in questo film si rimanda all'articolo di Luca Bandirali per "reVision".

Quella sequenza coincide con la fiducia nell'eroismo del giornalismo marcusiano, dove il bene e il male sono chiari: Al Pacino-Lowell Bergman incarna l'epigono di Bogey. Ed è il primo capitolo non esplicitato del film: "É la stampa, bellezza". Gradualmente quel primo elemento metaforico della verità nascosta ai nostri occhi viene sostituito dagli occhiali, inforcati da tutti i protagonisti, alludendo al disvelamento della verità, che per chi assiste al film è sempre evidente, e alla successiva confutazione della manipolazione.

Ma la militanza radical si avverte anche nei dettagli che fanno da contorno alla denuncia principale che vede un parallelo scorrere di due destini: l'incombenza del licenziamento senza giusta causa (come vorrebbero i criminali referendari iperliberisti anche in Italia) trapela nelle prime immagini che ritraggono la maschera imperturbabile e determinata di Russell Crowe-Jeffrey Wigand impegnata a rappresentare la faccia nascosta della medaglia sofferta dalla moglie che vede crollare tutto il suo benessere: la separazione è già contenuta nei due volti illividiti dalla paura, indotta dai bisogni materiali, e dall'indignazione proveniente dalla tensione etica dello scienziato che lo accomuna al giornalista. Il dover essere che spinge i due uomini verso una forte assimilazione, benché diversi per esperienza ed estrazione ("Mio padre era ingegnoso" – "Il mio ci ha lasciati che avevo 5 anni. E non era ingegnoso"), si contrappone all’attuale ferocia liberista; si accentua questa identità dei due uomini nella divisione diegetica che vede la prima parte incentrata sullo scienziato e la seconda invece tesa a coinvolgere le difficoltà a rimanere coerenti con gli stessi principi da parte del giornalista, sublimando così l’identità radical di entrambi. Essi sono pure accomunati dalle complesse situazioni familiari; a questo proposito cifra della capacità di sintesi degli autori è la sequenza in cui si sintetizzano gli intrecci di legami nella vita di Lowell: a letto con la moglie viene salutato dal figlio e dalla madre di quest’ultimo. Anche questo suffraga la caratterizzazione del personaggio come progressista.

Il frequente controcampo è un elemento dinamico che si contrappone a questa unione dei due uomini, simili come in Heat lo erano il poliziotto e il delinquente, ottenendo un effetto di maggiore coesione proprio per l’apparente differenza tra i due ambiti in cui agiscono. Addirittura non rinuncia a suddividere lo spazio dell’inquadratura come in un campo/controcampo nemmeno quando il protagonista è il fax, unico elemento significante inquadrato nelle due stanze, iniziando una manovra di avvicinamento e confusione dei due, dapprima ripresi ciascuno nella propria camera, connotata con precisione (ad esempio la foto di Allen Ginsberg è parte di quella ipersemantizzazione dei dettagli di design insinuata con evidenza) e poi la contrapposizione ci viene riproposta in una stessa inquadratura che però è ripresa frontalmente una volta da un lato del tavolino nel ristorante giapponese e una volta esattamente dalla parte opposta; gradualmente le immagini suggeriscono la sovrapposizione dei due destini e delle due moralità, visualizzata precisamente nel primo piano del giornalista sullo sfondo, poi in foreground, dei monitor che per cinque volte lungo tutto il film ripropongono il montaggio del servizio deflagrante.

"Non è più la stampa, bellezza!"
Tempo della manipolazione

Questa svolta nasce a partire dalla porzione di scritta che sovrasta il parcheggio in cui i due complottano ("Gate"), evocatrice dell’ultima estrema era del giornalismo eroico statunitense (Watergate), tagliata dal parabrezza dove con altrettanto rimpianto si citano le aziende (del passato) in cui non si nuoceva alla salute, perché gestite da un management fatto di scienziati e non da squali della finanza ignoranti, che si vantano di non sapere come mai l’acqua giunga all’ebollizione. In questo secondo momento della pellicola si ha l’impressione che si voglia far cogliere una nuova stagione meno eroica che trapela per contrasto e poi si rivela nella giovane dirigente yuppy e nella bassa manipolazione, seguendo una prassi registica adottata spesso nel film che dapprima introduce un concetto per litote negando il contrario e poi quando è evidente, lo espone al pubblico ludibrio attraverso la sua più squallida espressione.

Dalla scena nel ristorante giapponese - utile per aggiungere la descrizione di un'abilità (questa volta linguistica) a quelle già sciorinate sul conto della prestanza intellettiva di Wigand - s'inizia una serie di sequenze improntate all'esaltazione della conflittualità, che dal racconto si estende ai caratteri e da ultimo alla descrizione di una - ancora - possibile lotta contro i soprusi e la tracotanza del potere: si tratta di contrapposizioni forti che incontrano una efficace espressione nella volontà di rendere evidente la frequenza di campi e controcampi. Talvolta questi lasciano spazio a riprese ondivaghe che diventano claustrofobiche in interni, oppure vertiginose in esterno, e coincidono con l'indecisione del personaggio il cui ritratto in quel momento dà forma alla porzione di film. In questi frangenti l'incertezza è anche della macchina da presa, ma alla fine in qualche modo questa prende velocità e penetra lo spazio, convergendo in un punto: l'uscita di casa oppure, nel caso del lungomare, l'espressione dello scienziato-manager che decide di intraprendere la sua battaglia processuale: "Andiamo in tribunale!". L'isolamento della sua figura, anche nel tribunale, non fa che esaltare la sua unicità e determinazione morale in mezzo alla corruzione e la sua solitudine si misura con la nuova falsa soggettiva nella sua casa vuota (parallela a quella iniziale e che riporta l'attenzione sul giornalista), perlustrata fino al biglietto sul tavolo atteso e temuto, estremo recesso della dimora smantellata e azzerata definitivamente dopo il trasloco - preludio al suo accomodamento in un albergo e quindi alla totale perdita di una dimensione di vita normale. Da quel momento il movimento di riflusso che risucchia Wigand s'inizia con il movimento a ritroso del piano sequenza nella casa con camera a mano: dal tavolo la cinepresa recede, continuando il movimento in soggettiva, ritraendosi dall'abbandono non meno ferita dell'umiliato eroe, per proseguire poi nelle inquadrature frontali dell'uomo immobile nella camera, distrutto. L'uso della tecnica in senso narrativo - godardiano verrebbe da dire di fronte al ristorante giapponese, dove il controcampo è dal punto di vista del tavolo e non dei due interlocutori - ha un'evidenza che non può passare inosservata e si rivolge allo spettatore costringendolo a chiedersi i motivi (tutti spiegabili) delle scelte registiche e quindi a prendere coscienza della presenza e del livello di sofisticazione del linguaggio adottato.

Dal fondo dell'abisso iperliberista (assassino e stragista legalmente) si comincia a cogliere qualche timido segnale di reazione, quando paradossalmente si ribalta il presupposto di ricerca della verità di certo giornalismo (americano): "Con l'interferenza lesiva se dice la verità il danno è maggiore", disgusto aumentato dalla scoperta di manovre borsistiche. Ma è qui che il discepolo dell'Actor's Studio si rivela un Bogey del 2000, impressione accentuata dalla telefonata, dove alla fine la confusione dei due uomini "giusti" permette la creazione di un tipo unico, appunto Bogart: "Ma io ho detto la verità". Moralmente integri. "Uomini come te non ce ne sono più". È una battuta che fa accapponare la pelle per l'eco eroica che evoca e sancisce l'avvenuta sovrapposizione e intercambiabilità dei due pards con una luce in più radiante sul volto di Jeff che lo isola dal contesto e lo trasporta direttamente nel mondo ancora eroico dei film degli Anni Quaranta. Curiosamente la stessa illuminazione che lo ritrae nel buio dello spezzone televisivo montato da Lowell e riproposto perché rimanga esempio e denuncia.

"É quasi di nuovo la stampa, bellezza!"
Tempo della disillusione che coincide con la didattica

Entrambi finiranno ad insegnare nei colleges: non è detto che così non risultino ancora più guastatori. Ma prima l'alleanza con i colleghi meno corrotti consente attraverso un sodalizio quasi corporativo di rintuzzare lo strapotere dell'assenza di scrupoli. Persino la rivolta di Mike Wallace e le sue spiegazioni, falcidiate dalla proprietà, restituirebbero dignità alla categoria, però rimane la macchia, il precedente, l'ombra, che si estende con la resa a cui prelude il mancato servizio con Unabomber, il quale non è scelto a caso, ma come militante dello stesso attacco alle lobbies - anche simile per formazione: uno scienziato prestato alla sovversione - lasciato in pasto alla fbi i cui agenti sono malamente travestiti nella neve del Montana: chi più di lui risponde all'invito della compagna di Lowell, la quale sentenzia: "Devi sapere cosa vuoi fare prima di farlo".

Ognuno ha preso decisioni che gli hanno condizionato la vita, consapevoli di ciò a cui andavano incontro: "Sì, ne vale la pena", ribadisce per la quinta volta Jeff nel video, ricompensato "dal vivo" con lo sguardo di ammirata assoluzione della figlia. E questo è un altro aspetto eroico della strana coppia.

"Non sarà mai più la stampa, bellezza!"
Tempo in cui nulla sarà più come prima

Significativa la sequenza che colloca finalmente fuori delle porte girevoli della cbs Lowell, che in precedenza rimaneva intrappolato nel "meccanismo": dopo che è venuto meno il patto anche solo per un attimo, nulla sarà più come prima, ma almeno non si sarà stati complici del nuovo che avanza come un rullo compressore sulla libertà di stampa.