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Slam
Anno: 1998
Regista: Marc Levin;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 02-08-1999


Slam
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Regia:
Marc Levin
Sceneggiatura:
Marc Levin and Richard Stratton

Fotografia:
Mark Benjamin
Musica:
DJ Spooky
Formato: 35 mm.
Provenienza: USA
Produttore: Trimark Pictures
Distribuzione: Lucky red
Anno: 9/10/1998
Durata: 1 hr. 33 min.


Primo Premio al Sundance Film Festival 1998

Premiato al Festival di Cannes 1998



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Ci sono tutti i soliti elementi della militanza nera: la signorina tosta, tenera e appassionata; un ghetto in cui si spaccia, e Ray non è un'educanda; gangsta ingenui, atteggiati e destinati; l'odio razziale si divide in mille rivoli, nelle piccole dispute tra fazioni e poi anche al loro interno in una spirale perversa. Tutto in funzione della redde rationem, ispirata a Ray dalla permanenza in carcere.

Il film finisce recluso per un po' in un penitenziario, accompagnato per una china di normalità, e questo è già un primo motivo di interesse: i fatti non sono raccontati come eroici, anzi l'intento degli autori pare proprio quello di mantenere desta l'attenzione pur narrando vicende diffusissime, anche quando il protagonista si schermisce ("Non mi sono mai considerato uno che scrive poesie"); in prigione assistiamo ad una riedizione delle tensioni e degli armeggi narrati in molte altre pellicole, che però ci vengono proposti attraverso la poesia e traggono da questo un'inedita sincerità.

A tutti questi si aggiungono però i due elementi che cambiano tutti i personaggi di questa opera di tarda blaxploitation: il legame tra i volti e la situazione assicurato dalle rime e la musica, che conferisce il ritmo interno all'inquadratura. Entrambi aspetti legati all'ossessione per il TEMPO ("We are all servant in time"), vera pietra angolare del film: assenza forse di tempo, o tempo inteso come Zeitgeist che risucchia ogni energia, piuttosto che allusione a mesi e anni di inferno in gattabuia, elargiti perché nero (brutalmente l'avvocato black: "You have no chance. You are nigger", ribadito da molti altri successivamente): 274001 "e non sono sei numeri a caso".

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Questo è la vera sorpresa del film, che non è un film di immagini, benché come si vede dal corredo siano curate con quel tono sgranato e talvolta edulcorato da restituire l'atmosfera espressionista adatta alla disperazione, ma senza esagerare con cutting-edge, spalloni da cinema verité, rallenti e dettagli di dita che vergano intuizioni poetiche o al contrario controluce e primi piani intensi di occhi profondissimi:

è un film di lirica verbale sia quando emerge l'anima espressionista, sia quando si privilegia quella più intimista romantica.
Ogni battuta, anche quando non è rap o slam, possiede un calore evocativo e una profondità che oltrepassa la situazione risaputa, anche quando i due giovani verbalizzano i dubbi e le rivendicazioni di esistenze sempre sull'orlo del baratro, rinfacciandosi esperienze estreme e sfruttando il facile parallelo tra l'immagine della nave negriera e le loro esistenze, persino durante il fervorino del secondino nero, la cui funzione didattica è palese, l'impostazione, la soggettiva,
le parole realmente esacerbate concedono spazio alla esasperazione dei fratelli neri ma contemporaneamente rifiuta ogni autoindulgenza, spingendo verso lo sforzo di non eliminare da se stessi la presenza afro in Washington D.C., capitale il cui sindaco recita un ruolo cameo come giudice. Nonostante il testo giunga a sciorinare cifre, è molto più immediata l'adesione rispetto alle lezioni di Spike Lee, anche se l'omaggio esplicito serve per infilare una nuova prova poetica: "Do the right thing means being myself". Persino i meccanismi che vorrebbero cooptare Ray e irretirlo nelle maglie di un manicheismo di contrasti tra bande o adesioni a mafie ("Evil that I condamne") sono così naturali da non risultare sgradevoli. -

Infatti è un'opera che non a caso ha riscosso successo presso la comunità nera, forse anche grazie ad alcune scelte registiche che elaborano le immagini all'interno del cortile del carcere accelerandole e seguendo gli spostamenti in modo poco canonico, con l'ausilio di effetti piacevoli e preparatori dell'acmé, quando spara un rap sulle teste degli incarogniti palestrati detenuti, che riesce a fare breccia ("Ho dimenticato cosa stavo pensando" è il commento alla fine del suo scatenato intervento).
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L'intento è di inculcare il bisogno di "prendere in mano il proprio destino" in opposizione al "pow, pow all day"; il rischio era invece di conferire atteggiamenti cristologici al personaggio, mantenendolo però enigmatico e insicuro, automaticamente si ottiene la sua desacralizzazione, nonostante gli accenni al risorgere (ed in effetti Mike sembra quasi Lazzaro) e l'enfasi ispirata e profetica delle sue recite: improvvise scariche di libere parole improvvisate;

secondo lo stile di DJ Spooky, curatore della colonna sonora. Il musicista tra le sue ascendenze annovera Ornette Coleman (e si sente dall'importanza dell'improvvisazione) e Sun Ra (di cui permane una sorta di ascetismo spirituale) in una salsa rap, corredata di campionature elettroniche.

La comunità nera è a tal punto percorsa dal lirismo che le prime immagini mostrano i ragazzini che cercano di imparare da Ray, il tossico che demanda alla sostanza la capacità di capire le rime del rapper-spacciatore, durante l'autocoscienza in galera tutti sanno esprimersi attraverso versi diretti e autobiografici a dimostrare un altro assunto del film e cioè

che il canto e la produzione improvvisata di rime è per tutti i neri una forma di resistenza, sopravvivenza e denuncia, riassumendo tutte le esigenze, non solo quelle estetiche (e salva pure dai pestaggi), bensì più precipuamente quelle di socializzazione; emozionante il pezzo di bravura, sincero, da parte del regista e dei due rapper quando cantano in coppia da dietro le sbarre di due celle contigue senza vedersi, corredato dalla stretta di mano al termine delle rime al di là del muro; fa a talpunto parte della cultura nera che addirittura il gangsta commissiona a Ray una poesia per la ragazza: "Tu massaggi la schiena dell'universo dissolvendoti nel tempo e lasciando una scia nel sole". Durante il dipanarsi del film tornerà più volte quella formulazione un po' ermetica, anche sotto forma di immagine, soprattutto l'accenno al tempo può suggestionare ulteriormente, perché alla fine sarà il tempo a contaminare i giovani ragazzini neri del suo angoscioso slam di disperazione e negazione di Dio, di sconfitta della morte ("necro" e "negro"). "É nel tempo che si sono persi", Ray si risponde alla domanda retorica: "Dove sono finiti i miei nigger?". La domanda che aleggia lungo tutto il percorso attraverso l'ispirazione davvero esaltante nel flusso di parole sparate dapprima timidamente, magari interrompendosi e poi incedendo sempre più dirompenti inchiodando gli astanti e costringendoli a meditare, sia nel carcere dove bloccano la violenza, invertendo la vocazione di alcuni rappers, sia nel locale illuminato da spot degni dei ritrovi della beat generation.

di notevole interesse il materiale a disposizione nel sito ufficiale, che affianca i materiali relativi al film con una esaustiva storia dello slam e delle sue capitali nere.