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Royal de Luxe, retour d'afrique
Anno: 1999
Regista: Dominique Deleuze;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Camerun; Francia;
Data inserimento nel database: 01-04-2000


Royal de Luxe, retour d'afrique

Royal de Luxe, retour d'afrique

di Dominique Deleuze, Francia Camerun, 1999, 85´

10° Festival Cinema Africano

Milano 24/30 marzo 2000
regia di .......................... Dominique Deleuze
soggetto di  ...................... Dominique Deleuze
fotografia di  .................... Jean-Marc Bouzou
montaggio di  ..................... Marc Oriol
suono di  ......................... Dominique Malan
prodotto da ....................... Les films à Lou
distribuito da .................... Les films à Lou, 74, rue de la Fédération 750015 Paris,
................................... tel.:331- 44389000, fax: 331-44389001 e-mail: [email protected]



Un’opera di documentazione dignitosa e in grado di esaltare l’atmosfera un po’ retrò che circola nostalgicamente ogniqualvolta si mette in scena il teatro di piazza; in questo caso poi la commistione di spettacolo, la predisposizione al coinvolgimento delle popolazioni africane e l'animismo mostrano quali concentrati esplosivi possano essere procurati dall’unione di rappresentazione e genti, soprattutto in quelle contrade camerunesi, senza lasciare sedimentare quel sentimento malinconico, che in patria queste rappresentazioni tipicamente francesi rilasciano; forse in virtù della solarità e dell’effettiva plausibilità delle manifestazioni spirituali e corali, possibili solo a latitudini più meridionali.

Fin dall’inizio si pone in rilievo l’immediata risposta incuriosita della gente. Magari dapprima maldisposti ("Lo spettacolo è fatto per dimostrare che i bianchi sanno fare queste cose"), colmi di pregiudizi – rinfocolati anche dalla collocazione del campo nei pressi di un terreno sacro: letto in un primo tempo come un’alleanza con gli spiriti maligni e poi, per buona sorte, ritenuti potenti amuleti contro gli spiriti – ma mai indifferenti di fronte al "Petit géant", una marionetta di sei metri azionata da corde e marchingegni meccanici che ricordano le creazioni di Tinguely e trasportata per le strade del Camerun, quasi una processione laica di un Gargantua che mangia, apre gli occhi, si muove dinoccolato e con la tenera determinazione e l'incedere incerto della Petite Vendeuse de Soleil, che aveva inaugurato la rassegna milanese nel 1999.

"Quei bianchi sono matti: danno da mangiare a un pezzo di legno. Ma è nostro fratello perché è nato a Foulou." Così si esprime in un’intervista inserita nel film un abitante di Foulou; di contro il regista dello spettacolo – dotato di uno stock invidiabile di occhiali coloratissimi – rilascia spiegazioni dei motivi dell’impresa durata sei mesi: "Lo spettacolo è per risvegliare la gente. Bisogna comprendere ma è altrettanto importante non comprendere. Non ho il diritto di raccontare la loro storia, ma posso postulare quello che io vedo della loro cultura; quindi in questo lavoro c’è molto di europeo e anche molto di africano: infatti fare storie come quelle in Europa suonerebbe falso". Intanto si alternano momenti di preparazione delle marionette, oggetti di fattura artigianale, nella quale sono coinvolti anche giovani autoctoni, che riprendono le fattezze di animali o esseri di fantasia (hanno lavorato molto sulle fiabe locali), con spettacoli e impressioni sia del pubblico, sia dei teatranti fino a ottenere una amalgama unica di significati di provenienza diversa, che investono nella marionetta molteplici valori. Così si è ottenuto di evolvere la percezione del lavoro da un giudizio di parziale chiusura in cui traspariva l’impressione che i bianchi fossero andati per dissacrare ad un’adesione alla cacciata dei diavoli.

Il dubbio che possa trattarsi ancora di una operazione coloniale travestita di buone intenzioni può aleggiare, però viene meno nel momento in cui ci s’accorge che la fruizione è diversa, legata alla cultura e dunque la gente rispetto al pubblico occidentale sembra avere più memoria per le immagini, un modo diverso di percepirle e poi soprattutto di raccontarle: inserendo nel mito il piccolo gigante attraverso il recupero della meraviglia, quella stessa che si coglie negli estatici volti che assistono a La Projection: infatti anche questa volta lo spettacolo si vede prima sui volti degli spettatori e si comprende dai loro commenti, che lasciano trasparire lo stato d’animo. L'immagine che risulta è forte e sorprendente: gli spettatori reagiscono alle immagini senza mai avere visto un film; mentre di contro i pupari francesi si trovano a vivere una storia quotidiana con persone che poi saranno pubblico e contemporaneamente autori, che riconoscono alla fine i racconti degli antichi avi, affabulati con le marionette. Magari l’atteggiamento dei francesi è debitore al bon sauvage di tradizione rousseauiana, però è quest’ultimo che si appropria del teatro, rielaborandolo e adattandolo anche alla propria concezione della morte: lì si può ridere della vita come della morte e quindi si dischiudono molteplici possibilità narrative diverse. Un defunto può attraversare il villaggio, un bambino morto dà luogo ad una leggenda che lo vede protagonista del suo rapimento.

Molte considerazioni antropologiche e estetiche interrompono il flusso dei movimenti dinoccolati dei mastodonti in legno. Ciò che è molto apprezzabile è l'alternanza del punto di vista degli europei con le interviste dei camerunesi, accomunati dal fondo di una tenda rossa, come se fossero in attesa di scattare una fototessera. Curioso che gli spettacoli entrino a far parte del bagaglio di storie da tramandare. E questo introduce nuovamente la questione del confine labile tra realtà e fiction: per uno degli intervistati l'effetto di realtà della processione del piccolo gigante ha caratteri di realtà che superano il sogno, nel quale si è invece immerso l'interpellato successivo. Anche in questo caso affiora il dubbio che si siano applicati criteri occidentali più di quanto la situazione avrebbe consentito: forse, se si fosse voluto sbilanciare il lavoro filmico ancora più sull'approccio degli africani, mantenendo sullo sfondo di puro pretesto l'apporto europeo, si sarebbero ottenute immagini ancora più significative, però è un problema che gli autori dello spettacolo teatrale si sono sicuramente posti, poiché alla domanda sul presunto colonialismo, mai esplicitata, ma aleggiante lungo tutto il film negli atteggiamenti guardinghi degli africani e in quelli rassicuranti dei bianchi, il regista conclude con una frase da antologia e che dirime qualunque sospetto di colonialismo si accampi sul fatto (probabilmente positivo e sintomo di arricchimento) che alla partenza della carovana sulle capanne cominciarono a campeggiare stilizzati degli aerei in omaggio alla scena clou del lavoro teatrale e che maggiormente ha inciso sull'immaginario dei destinatari. La frase che spazza via le eventuali accuse recita: "Quando vedi un bel fiore in giro, prendi qualche seme e lo pianti vicino a casa". Poi magari lo coltivi secondo criteri desunti dalla cultura con la quale ti sei formato.