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My Own Conutry
Anno: 1999
Regista: Mira Nair;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA - India;
Data inserimento nel database: 20-04-2000


My Own Country

My Own Country

di Mira Nair, USA, 1999, 104´

15° Festival Film
a Tematiche Omosessuali
Torino 13/19 aprile 2000
regia di ..................... Mira Nair
sceneggiatura di ............. Jim Leonard Jr., Sooni Taraporevala
dal romanzo di ............... Abraham Verghese
My Own Country, a Doctor's Story of a Town and Its People  in the Age of AIDS
fotografia di ................ Dion Beebe
suono di  .................... Joe Barret e Stuart French
interpretato da .............. Naveen Andrews, Glenne Headly,
.............................. Hal Holbrook, Swoosie Kurtz,
.............................. Marisa Tomei, Adam Tomei, Ellora Patnaik prodotto da .................. Barbara Title produzione ................... Hallmark Showtime provenienza................... USA, India anno ......................... 1999

Quasi una docufiction. S’inizia in un ospedale indiano, dove il protagonista segue la sua formazione in locali fatiscenti; ma dura pochissimo: Mira Nair sceglie di abbandonare la sua nazione, intitolando paradossalmente My own Conutry un film girato in Tennessee, scavando una storia che affonda nei primi anni in cui l’AIDS mieteva vittime attraverso la testimonianza diretta di un medico indiano, ripreso mentre a posteriori descrive gli incontri con quella varia umanità sofferente su una macchina da scrivere, sotto lo sguardo scettico della moglie, di cui perde l’affetto e da cui verrà abbandonato. La regista prova a dare un senso al mondo da cui proviene usando l’Occidente come uno specchio e solo la malattia le consente un parallelo attraverso il contagio. Contemporaneamente l’autrice tiene a precisare l’incapacità di capire il disagio dei malati da parte della comunità indiana in USA, in cui è inserita soprattutto la figura della moglie del medico, che patisce la lontananza, dimostrandolo dedicandosi alla danza e con i contatti con gli altri indiani emigrati. Altrettanto stridente è il contrasto tra la pace della villa del medico e le baracche dei malati: il dolore si esprime anche attraverso le locations e l’indifferenza di chi non vede la tragedia e addirittura giunge a rifiutare con insofferenza il marito medico: "Have you washed your hand?"; e l’unico commento di Abraham è: "Non riconosco più quella persona accanto a me spaventata".

Il film è narrato con toni pacati, in questo tipicamente indiano: preferisce il risvolto intimo alla convivenza, magari rabbiosa contro il virus. Si vedono dapprima alcune situazioni in cui il medico va a cercare nei locali gay di instillare la coscienza del rischio (la vicenda si colloca nel periodo dei primi casi conclamati), e lì comincia a fare esperienza di sguardi sgomenti che lo vivono come "giudice più che come medico", il risvolto umano viene descritto attraverso l’evolversi del suo rapporto con i pazienti, che poi lo considerano confidente, appoggio morale, fino alla scena in cui si rompono gli argini ed è lui a piangere di fronte alla dignità del pastore battista ammalato a causa dell'affollarsi di incubi e storie struggenti; l’opera di sensibilizzazione incominciata nel pub prosegue all’interno di una chiesa battista, dove il suo compito è anche quello di limitare l’intolleranza. Fino a quel momento il docu-fiction si mantiene sulle generali, poi incomincia ad incidere nel profondo, inanellando la serie di casi che Abraham Verghese comincia a seguire: qui si indulge maggiormente alla pietà, ma il tocco della regista indiana si mantiene discreto e si attarda sui volti limitandosi alle prime reazioni al momento della rivelazione del contagio, magari addirittura riuscendo a mostrare la sorpresa di due genitori che non conoscevano le scelte sessuali del figlio finché lo vedono incubato; evidentemente l’aspetto che più interessa enucleare è quel sentimento che si prova a passare dall’altra parte, tra i condannati, forse persino peggiore è secondo la regista la condizione di chi è vicino ai malati.

E di nuovo i termini che siamo tentati di usare rientrano nella prassi giuridica del giudizio. Tutta la carrellata di tipologie ci vengono elencate cercando di evidenziare l’estrema normalità dei soggetti: Mira Nair ha alle sue spalle opere strappalacrime come Salaam Bombay, che potevano far temere eccedesse in facili sentimentalismi retorici, invece – forse per la distanza dal suo paese – in questo caso riesce a contenersi e ottiene di proporre alcune gemme, distillati di privato struggimento, racchiuso come in una bolla di dolore che comprende tutti quelli che per affetto sono vicini ai malati, ma è una bolla che non esplode mai, sommergendoci nel dolciastro. Ad esempio l’indubbio mestiere della autrice le fa cogliere minimali azioni pietose: il cappellino da cantante di Mattie estratto da un baule, proseguendo il montaggio dei flasback sugli spettacoli dell’era salubre, e al momento delle prime avvisaglie dell’acutizzarsi del male, viene riposto con gesto pietosamente furtivo e consapevole della fine di un’epoca appena colto dal movimento della camera a mano, mentre documenta i vari stadi della malattia con un particolare uso della quantità di luce – e soprattutto di controluce – per dosare la quantità di tenebra che si accalca nell’anima di chi è coinvolto dalla malattia; tutti i casi finiranno allo stesso modo, ma i passaggi riescono a non annoiare perché di ciascuno si avverte la unicità, dovuta alla sensibilità e alla preparazione dell’individuo sempre differente e queste differenze si evidenziano grazie alla struttura che incastona i destini di ciascuno dei malati in una graduazione dei livelli di aggravamento, che restituiscono un senso di ineluttabile evoluzione comune, passando da un racconto all’altro parallelamente, stadi cadenzati dalla voce off, che cadenza anche la vicenda personale dell’io narrante.

Una delle immagini più emblematiche dell’approccio a metà tra la pietà e la inane rabbia è al cospetto della bara del cantante, il primo a morire al quale il necroforo rifiuta per paura del contagio di infilargli i calzini e la sorella con fermezza glielo impone.
C'è tempo anche per una breve indignazione di fronte alle pretese dell'ospedale - degne di Emma Bonino - di tagliare sugli ottantadue malati poco remunerativi: è solo un accenno perché il taglio vuole essere molto rispettoso nel documentare in modo tuttavia intimo il travaglio dei pazienti, ma anche del medico coinvolto in prima persona e che nel finale scrive che il virus gli ha distrutto la famiglia.