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Lista de espera - Lista d'attesa
Anno: 2000
Regista: Juan Carlos Tabio;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Cuba;
Data inserimento nel database: 27-12-2000


Lista de espera

 

Lista de espera


Lista d'attesa


regia
Juan Carlos Tabío

sceneggiatura
Juan Carlos Tabío, Senel Paz dal racconto di Arturo Arango

fotografia
Hans Burmann

montaggio
Carmen Frías

scenografia
Onelio Larralde

costumi
Nancy González

trucco
Nereida Sanchez

musica originale
José María Vittier

suono
Jorge Ruiz

produzione
Tornalsol, ICIC, DMVB, Tabasco Films, Producciones Amaranta

distribuzione
Mikado

durata
106'





interpreti: Vladimir Cruz (Emilio), Tahimí Alvariño (Jaqueline), Jorge Perugorría (il cieco), Saturnino García (Avelino), Alina Rodríguez (Regla), Antonio Valero (Antonio)

 

 

Non solo la Malpensa di Fossa dimostra l’insipienza della classe manageriale neo-liberista quando deve affrontare il mercato senza rete o scaricando le proprie colpe sui lavoratori e i loro presunti costi, ma la medesima trascuratezza è anche un male che ha travolto il socialismo reale e che a Cuba, complice l’embargo che offre un pretesto ai burocrati per adagiarsi nella negligenza e nell’incuria, dà luogo a situazioni insostenibili, alle quali l’iniziativa del collettivo, la solidarietà della base può porre rimedio; e questo è il primo livello di significato del film di Tabio, dichiarato con frasi anche troppo esplicite, nelle quali prende corpo l’utopia di un sogno collettivo, che al risveglio persiste in qualche traccia, superando l’attesa passiva del sol dell’avvenire.


 

E questo introduce al secondo livello, metaforico: evidente è l’allusione alla vita cubana, senza le banalità di Schnabel, considerando le molte eleganti allusioni ai maricon comprese anche in questo film con la chiosa finale ("non c’è problema") che liberalizza completamente l’universo gay dopo Freisa y chocolat; "La fila è la massima autorità in questi casi" è una battuta folgorante, ma anche rivelatrice di quale sarà lo sviluppo affidato alla comunione dei singoli in un film corale. Davvero la comunità si va costituendo sotto i nostri occhi: metafora della costituzione di una società, tanto che all’inizio il sistema adottato è quello della commedia di caratteri, che rendono gli individui esasperando la loro singolarità, colti nelle loro pulsioni, nei loro intenti ("Ognuno conosce i suoi problemi"), ciascuno occupato a accampare i propri personali diritti al biglietto; dopo la trasformazione in un’autentica piccola comunità socialista (a partire dalla donazione delle aragoste da parte del presunto cieco si ottiene il paradigma che era stato evocato nella domanda se ci si trovasse in uno stato capitalista, visto l’atteggiamento di prevaricazione non diverso tra la stazione di pullman nel centro dell’isola caraibica e l’intolleranza di Malpensa, natale 2000) gli individui resi solidali evolvono, non perseguono il particolare loro, anzi lo fanno nel momento in cui pretendono di lasciare il loro posto considerando il luogo che hanno concorso a migliorare preferibile a quello in cui potrebbero andare: la differenza sta nel tono, nell’affermazione del loro ego ridotta a rapporto anche intimo, non a caso sbocciano anche troppi amori. Poi ancora una nuova evoluzione dei caratteri riconduce il mondo fuori dalla città del sole, ridotta a stazione per corriere ridipinta, e rimette le cose a posto, concludendo la serie di episodi che hanno il pregio di offrire a tutto tondo i singoli senza estrapolarli dal contesto armonico, poiché la scommessa era quella di realizzare un mondo plausibilmente desiderabile, tanto che pure uno spettatore occidentale potrebbe esserne attratto.


Un ulteriore aspetto, considerabile come terzo livello di interpretazione, va approfondito: quello della struttura. La sceneggiatura è interessante, perché dietro all’apparente semplicità si nascondono molteplici stratificazioni narrative: il colpo di teatro finale che svela lo sviluppo onirico, proprio nella rivelazione consente di raccordare il racconto da svegli al preciso momento in cui era stato interrotto da una frase che faceva preciso riferimento alla veglia e al sonno, ma questa divisione è creata appositamente per consentire la commistione dei due stati della realtà, ancora più fusa nell’epilogo in cui si diverte a ribaltare alcune situazioni, ma anche a risolvere in modo fiabesco certe vicende. Ma non si nasconde soltanto una costruzione raffinata per poter sorprendere alla fine, ma si occulta la tipica costruzione della commedia di caratteri dietro a un impianto che dapprima si riferisce al neorealismo ammantato di sensibilità per le situazioni più comiche tipiche del cinema cubano e poi si trasforma gradualmente in surrealismo, a cui si adattano le molteplici allusioni all’Angelo sterminatore, ma anche attraverso un elemento interno alla sceneggiatura stessa quale è l’espediente di far trovare all’interno del libro intitolato Lista de espera il sistema per proseguire il racconto. Proprio l’uso dei riferimenti cinematografici assomma ad una struttura apparentemente leggera l’ennesimo sistema di interpretazione del testo, proposto dagli autori medesimi, che volendo palesare i riferimenti a loro presenti nella creazione, hanno voluto anche offrire chiavi di lettura: il personaggio del cieco si fa carico di indicare in Profumo di donna (sottolineando l’interpretazione di Gassman per escludere il remake di Pacino) il paradigma a cui fa riferimento; ma anche il citato Pranzo di Babette è un segnale che si vuole ribadire la limitazione di un breve periodo, privo di confini precisi e in balia dei capricci dell'immaginario (senza contare che Babette era una comunarda), estrapolato dalla realtà messa in scena all’inizio e la cui durata è puramente diegetica.


Il perno del racconto che si recupera soltanto a posteriori s’incastona in quel momento di sospensione che divide il sogno dalla veglia, il primo momento in cui Jaqueline si nega e la seconda risposta in cui si lascia andare ai suoi desideri (anche questo movimento viene esplicitato), e alligna anche l’altro elemento simbolico che è la pioggia. Emilio in quel frangente esprime tra sé l’idea che sarebbe peggio diluviasse e ovviamente è immediatamente esaudito, però la pioggia assume una connotazione liberatoria oltre che catartica: infatti le coppie danzano e si baciano gettandosi all’aperto senza remore, sotto la pioggia come dispregio delle regole, vere catene di qualsiasi società: "Mi piacerebbe buttarmi sotto la pioggia", dice la donna insoddisfatta del marito, intimorito dalla possibilità di fare qualcosa fuori dalle regole.
Da lì a riabilitare La Nausea di Sartre, Unamuno e Madame Bovary il passo è breve e sicuramente più dirompente delle banalità di Schnabel sulla stessa materia censoria.


Il racconto vive di accurato mestiere (quella pregevole sospensione del mondo, come è stato descritto fino ad allora, creata nel momento in cui gli altoparlanti, più volte inquadrati, avvertono che si procede al rilascio di … "un biglietto") e freschezza di realizzazione di trovate già formalizzate in altre pellicole (l’esilarante tentativo di fermare un veicolo nel buio, del quale si vedono solo due luci), la facile battuta efficace ("Cieco, non ti cambierei nemmeno con Stevie Wonder"), l’equivoco inventato da un inconscio freudianamente scatenato nel sogno ("Se lo sono mangiato", riferito al gatto e riferibile al bambino). La differenza con il film di Schnabel si coglie nel personaggio dello spagnolo: là gli europei erano i solleciti aiutanti del povero perseguitato, qui è l’intruso che con i suoi soldi si frappone tra l’amore da sogno sbocciato tra i due giovani, come quello che lo stesso attore aveva interpretato con la turista americana in La vita è un fischio. In questi dettagli passa il colonialismo e la differenza di atteggiamenti tra pratica del dissenso della popolazione cubana, con l’avversione per la burocrazia, e livore "capitalista": quando la disponibile figura dell’amministratore per nulla compromesso con la soffocante oppressione del regime – messa in mostra con scherno attraverso alcune figure come il delatore o il borsanerista – descrive la stazione, lo fa con una tra le più scoperte metafore politiche: "La corriera della nostra stazione non è la più lussuosa, ma è la nostra corriera". In questo modo esprime con forza la fierezza, che nemmeno la retorica castrista è riuscita a rendere improbabile; la volontà di riconoscere le proprie peculiarità con dignità e orgoglio, il desiderio di rimanere senza essere costretti a patire per abbandonare la propria casa ("Voglio andare, ma voglio anche rimanere"). Ma non è la retorica del servo di regime che con maestria viene stigmatizzato rendendolo macchietta quando si sforza di esprimere lo stesso concetto, ma con la zavorra untuosa del viscido ammiratore dell’autorità, qualunque essa sia: "Con il pessimismo e il disfattismo non si va da nessuna parte" in bocca a un personaggio così compromesso con i sistemi di potere diventa messaggio sinistro, complementare delle sue incitazioni a procedere contro gli indisciplinati, a mettere a un freno alla spinta a organizzare dal basso, colpevole di consentire a ciascuno di fare quello che vuole. Senza vedere l’armonia spontanea che davvero può minare qualsiasi potere.
Purtroppo realisticamente: "Dobbiamo immaginarla brutta per non farci illusioni" e questo vale per la ragazza del sogno come per le idee di emancipazione dell’utopia. Però siamo tutti pronti a ricominciare a sognare (Calderón? Uno dei pochi non citati, lasciato implicito e forte richiamo per il sogno collettivo che ha coinvolto l’immaginario di tutti i "giusti": estromesso è il borsanerista, ma gli altri hanno precisi ricordi e tracce degli eventi attribuiti al sogno), rispondendo al richiamo: "Chi è l’ultimo?".