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La guerra degli Anto'
Anno: 1999
Regista: Riccardo Milani;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 06-10-1999


La guerra degli Antò

Regia: Riccardo Milani

Sceneggiatura: Domenico Starnone, Sandro Petraglia
Soggetto: tratto da Il Disastro degli Antò di Silvia Ballestra
Musica: Piccola Orchestra Avion Travel
Provenienza: Italia
Anno: 1999
Distribuzione: Cecchi Gori




Interpreti:
Regina Orioli ----------- "S"ballestrera
Flavio Pistilli ----------- Antò lu Zombie (L'Aquila)
Paolo Setta ------------- Antò lu Purk (Pescasseroli)
Danilo Mastracci ------- Antò lu Zorru (Sirri sul Tirino)
Federico Di Flauro ----- Antò lu Malatu (Sulmona)

Nella più classica tradizione sociologica Petraglia e Starnone ritagliano un periodo non troppo lontano nel tempo da risultare vivido nella memoria di ciascuno, ma già storico, e vi fanno interagire gli individui con gli archetipi, resi ancora più stereotipati dalla distanza: i quattro Antò rischiano di essere gli unici credibili personaggi in un film che li vede destreggiarsi in mezzo a mostri di convenzionalità delineati con un'amara componente umoristica. Rimane l'angoscia: quella dei ragazzi da un lato, "punk inculati" che rifiutano tutto lo squallore proposto dalla provincia e si scontrano con la desolazione metropolitana, e dall'altro quella delle immagini della prima guerra televisiva, scatenata dal petrolio e non dall'acqua, come vorrebbe il ridicolo intellettuale modaiolo: due disperazioni accomunate dall'incendio che coinvolge i due Antò, ripreso formalmente in uno dei montaggi più riusciti del film con i lampi sui televisori, durante l'indignazione degli altri due Antò in lotta con la Raffai; si vede questo raccordo attraverso gli occhi della scrittrice a Bologna che assiste alla trasmissione insieme agli altri studenti.

La collocazione a cavallo tra il 1990 e il '91, anno biograficamente significativo per la formazione della scrittrice del libro da cui è desunto il film - che la descrive durante gli eventi già intenta ad analizzare le storie altrui, molto distaccata (però talvolta le viene riservato il ruolo tipico del demiurgo scrittore: collocare i personaggi in una situazione e vedere le reazioni all'ambiente, ma soprattutto di quest'ultimo ai loro danni), la scelta di quell'anno va al di là del solito ripiegamento dei giovani autori sul proprio microcosmo, ma lo estende a tutto il Paese, che risulta un'unica piazza provinciale ("Se a Bologna non ci fossimo noi studenti sarebbe peggio di Reggio Calabria" è un'affermazione razzista, che trova ragione solo nell'intento di dimostrare la diffusione dell'insipienza su tutto il territorio nazionale), incapace di cogliere l'urlo disperato di disgusto che proviene dai suoi giovani di ogni epoca, persino quando creano un parapiglia televisivo per denunciare il marciume in cui si dibatte la società e la prevaricazione di autoritari personaggi equivochi. A questo proposito viene citato più volte Kossiga, gladiatore e oggetto di scambio vagheggiato dai ragazzi: in cambio di lui, Kohl e la Tatcher, gli americani dovrebbero liberarci Spielberg, Kubrick (parlandone da vivo) e Landis, dei quali tanto loro non se ne fanno niente. Ma le citazioni cinematografiche non si fermano qui, benché limitate a evidenti esposizioni di poster sui muri degli appartamenti zeppi di studenti: Creepshow, The Rocky -horror Picture Show, Il Tempo dei Gitani non fungono nemmeno da referenti di uno stile, ma sono semplicemente decorazione di ambienti con un valore di memoria degli arredi d'interni studenteschi, al massimo possono servire tautologicamente per ribadire un personaggio, come quando Lu Purk dialoga in piedi con il montato intellettualoide e a fianco ha un poster di The Warriors (il mitico film di Hill, 1979); sono l'aspetto meno interessante di un film che linguisticamente è curioso perché cerca di fondere le espressioni vernacolari con arzigogolate frasi infarcite di filosofese, tipico di certi ambienti accademici che hanno assimilato malamente le espressioni dei filosofi francesi (è facile il sarcasmo su La scrittura e la differenza, paperbacks Einaudi di Derrida), a cui si aggiungono registri diversi desunti dai vezzi letterari provenienti dal testo originale o da quelli coinvolti loro malgrado (il baccagliamento tramite Ballo di famiglia di Leavitt è una situazione simile ad altre migliaia, sfruttata una pletora di volte nel cinema italiano che vorrebbe assimilarsi al minimalismo ed invece talvolta scade nel pecoreccio delle "bocce", del "culo" o della battuta innocua sulla confusione tra i pendoli di Eco e Poe), come dalle situazioni diversissime attraversate spesso proprio senza troppa unitarietà, quasi che lo scopo fosse quello di sezionare il racconto con quante più microstorie fosse possibile inserire, demandando alla gratuita comicità, derivante da queste la possibilità, di offrire uno spaccato godibile da un pubblico anche televisivo, che a causa dell'involuzione del linguaggio non sarebbe più in grado di seguire il disagio di vivere in Italia raccontato integralmente attraverso le sequenze più introspettive. Questo rimbalzo da stili alti a dialettali si ripercuote sul linguaggio cinematografico, che usa inquadrature fisse sul gruppo, magari intenti nella lettura di lettere dell'amico, estratte direttamente dai primi film militanti di Petraglia, legati al movimento '77 mescolati con i teatrini da comicità toscana montati sulla falsariga dello spot televisivo, per adattarsi agli anni '90. Il risultato è schizofrenico: autori provenienti dall'antagonismo di vent'anni fa, che usano un periodo di dieci anni successivo, descrivendolo a tratti con il linguaggio loro proprio per formazione (talvolta desueto, come il controluce sul cielo del lungo mare dei tre superstiti a Montesilvano), cercando di rivolgersi ad un pubblico enormemente cambiato, lasciando modificare le proprie espressioni dai gusti televisivi, adattandosi per attirare pubblico (meritorio intento, se poi non risulta così scoperto l'obiettivo didattico o sociologico) anziché tentare l'operazione inversa.

E allora assistiamo agli sforzi per avviare la narrazione, aggirandosi lungo la desolata spiaggia di Montesilvano (PE). Sovrumani, visto che prima di veder comparire il titolo, sopportiamo alcuni siparietti nei quali s'introducono le micidiali macchiette dei giostrai, preludio di infinite altre improbabili tipologie di uomini che costellano tutto l'itinerario seguito per raggiungere una stamberga di Amsterdam, persi nel tentativo di alleviare la materia; ancora una volta schizofrenico, visto che sul versante serioso invece si fa di tutto per ricordarci l'indicibile amarezza dei quattro amici, fino a rinverdire lo stereotipo dell'italiano emigrante, tristemente impegnato a prepararsi una spaghettata. Quando, molto sporadicamente, gli sceneggiatori lasciano esplodere la vecchia rabbia politica senza ricondurla all'interno di strutture che comprimono la carica sovversiva, ottengono esilaranti sequenze liberatorie che mantengono ancora la follia dei periodi d'oro del punk e della contrapposizione "creativa", come la minzione collettiva sul letto del palazzinaro gladiatore ("Profanare Treves", come se fosse un tempio), attaccato dalla fanzine Mo Basta, ma meno odiato delle sue figlie gemelle: due cozze piene di buon senso, trasfigurate in un'altra efficace sequenza surreale in due suore, figure allora solo diffuse ed ora capillari e predominanti nel rilievo dato alle assise dei giovani industriali, dove lo standard è persino più deprimente: almeno queste due nel finale ballano sulla spiaggia ecumenicamente con tutti i mostri in una passerella finale da avanspettacolo (o da Costanzo Show) a ritmo di merengue, ennesimo omaggio alle mode.

Altro episodio che è catarsi e contemporaneamente momento topico preparato per tutto il film è la puntata di Chi l'ha visto?, con un'autentica Raffai, che non si scompone di fronte alla rissa scatenata da Antò lu Zombie: in quel frangente verbalmente si rovescia addosso ai benpensanti e al pubblico l'esacerbato prodotto della sofferenza nei vari luoghi (risaputi, purtroppo) in cui i quattro punk e in particolare il coraggioso Antò lu Purk hanno patito la grettezza della società degli integrati ("Coraggioso lui che parte, ma ci va del coraggio anche a restare a Montesilvano"). Si preferisce blandire i gusti di chi si può identificare (a parte l'orrido commento musicale della Piccola Orchestra degli Avion Travel, che non c'entra nulla), giungere a proporre un ritratto tenero, quasi infantile ("Nessuno mi vuole bene da quando è morta la nonna"), spudoratamente denunciato col pianto nella notte quando addirittura si usa l'espediente dell'intrusione in flashback dell'infanzia di Antò lu Purk, un'operazione che apparenta il film con le più dozzinali produzioni di quegli anni; negli intenti degli autori probabilmente c'era un tentativo di confronto tra le due epoche, oltre all'improbabile ricerca delle motivazioni della trasformazione di Antonio in un punk (come se si trattasse di una malattia sviluppata individualmente, anziché di un virus collettivo); si tratta di episodi meno significativi, già più volte formalizzati come gli accomodamenti in case sovraffollate di studenti, il peep show, la superdotata affascinata dalla scopata orientale, le trombate dei turisti francesi ad Amsterdam: tutti elementi classici, pacchetti che si possono introdurre in qualsivoglia plot per le opportunità offerte dalle occasioni scollacciate che si producono e che asfissiano le frasi che emergono ("Contro l'immoralità della guerra non c'è che l'immoralità di massa") in un grottesco che avvolge tutto l'impianto fino all'apoteosi nell'evocazione del fantasma di Cocciolone, a proposito della Guerra del Golfo, ma soprattutto in quanto abruzzese, capo d'imputazione per Antò lu Zorru alla pari di disertore e piromane.