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Gudia
Anno: 1998
Regista: Gautam Ghose;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: India;
Data inserimento nel database: 15-08-2000


Gudia

GUDIA

Regia: Gautam GHOSE – Sceneggiatura: Ain Rashid KHAN – Fotografia: Gautam GHOSE – Musica: Gautam GHOSE – Montaggio: Moloy BANERJEE –


Interpreti: Mithun CHAKRABORTY (Johnny), Nandana DEV SEN (Rosemary), PRAN (Hameed), Mohan AGASHE (Braganza), Masood AKHTAR (Munna Bhai) – India,
1998, 130’. (PLUS FILMS)


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Per la sensibilità occidentale risulta ridicola l'ingenuità della trama, che si riduce al rapporto di un ventriloquo con la sua bambola e del suo successo, derivante da un repertorio anche satirico, e fastidiosa l'approssimazione della recitazione di certi personaggi, in particolare la giovane Rosemary (molto avvenente, ma giustamente nel finale prende il posto della bambola, forse anche perché incapace di fare altro nell'economia del film), però l'operazione tipicamente bollywoodiana di questo musical, che a volte ricorda i tipici film indiani di passioni in montagna, dove si sprecano gli jodel (immancabili anche in riva al mare di Goa in questo film), va studiata con attenzione.

Innanzitutto uno dei messaggi che preme agli autori di questa pellicola, che ha avuto ampi consensi in India, è sottolineare l'evoluzione del gusto e la capacità del protagonista di evolvere la tradizione, senza stravolgerla: ciò si coglie in particolare nel pregevole momento di passaggio delle consegne. Durante questo snodo si indulge un po' troppo al melodramma, s'insiste esageratamente sullo struggimento del vecchio Hameed, costretto dalla sua sempre più flebile voce a staccarsi dalla sua creatura, che è la parte nascosta della sua anima, come con facile e banale dichiarazione si esprime a chiare lettere, perché utile a renderlo introduzione prolettica alle difficoltà del giovane di fronte alla svendita della sua arte, ma infila anche due sequenze molto interessanti: la prima è la preparazione di Hameed durante lo spettacolo alla seconda parte dove lui farà spazio al giovane, che muta il repertorio, aggiornandolo e avvicinandolo al sentimento del pubblico, soprattutto rendendolo specchio della vita quotidiana, con gli ovvi scambi di battute di una coppia normale, laddove il vecchio era più legato ad una classicità di argomenti meno scanzonati. Una specularità che la regia non smette di rimarcare, infilando moltissime scene in cui i personaggi sono incorniciati in uno specchio, consentendo così dialoghi a tre, dove il terzo è ovviamente sempre la bambola in posizione centrale e fissa, senza controcampi.

Altro elemento che probabilmente ha molta presa sul pubblico del subcontinente è un discorso un po' populista, ma universale, che denuncia senza timore la corruzione dei politici al quale si intrecciano gli scontri religiosi, l'accenno al Punjab del maestro in fuga con la sua bambola, la sua anima, attraverso la quale il cantante si concede espressioni temerarie, che non possono piacere ai detentori del potere. Fino alla denuncia degna di Mani sulla città, che decreta la fine della bambola. Ma non della volontà dell'artista di esprimersi in piena libertà: la sua crescita di coscienza politica è molto ben regolata dalla sceneggiatura, fino ad arrivare al pubblico urlo di dolore ("Ci minacciano e noi stiamo in silenzio?!"), una sorta di Victor Jara, che per sua fortuna non vive nel Cile del gran macellaio e dunque pur vedendosi negata la libertà di espressione non viene torturato e ucciso. Infatti la prima battuta della bambola in carne e ossa sarà: "Sono una donna moderna, ma non posso dire la verità". L'unico problema è che se il segnale che si voleva dare riguardava una maggiore liberazione della donna, finalmente emancipata dal ruolo di bambola, si doveva scegliere una attrice, magari meno strafiga, ma capace di recitare. Benché i dialoghi, spesso punteggiati di canzoni fin dal prologo che documenta l'insegnamento dell'arte del ventriloquio, lascino pensare che Urvashi (nome della bambola) sia una sorta di divinità canora a cui è permesso dire ciò che non si potrebbe: "Urvashi è nemica del silenzio". Non raggiunge i livelli scanzonati del sarcasmo di Marana Simhasanam, premiato al Torino Film Festival, però un plot così impegnato in una produzione commerciale e evidentemente pensata per una capillare distribuzione è sintomo di una richiesta e di un interesse popolare.


Un po' greve l'immagine traslata sulla bambola (Gudia significa proprio manichino), che vuole incarni la Voce, ma interessante che si spezzi il retaggio secolare che prevede la "vendita" della bambola-donna, simbolo pure della dicotomia nella natura del ventriloquo, da cui nascono le battute pronunciate da lei e che dunque deve coltivare in sé la natura femminile: difatti Hameed accetta di insegnare l'arte solo dopo che Johnny ha enunciato la differenza tra uomo e donna, in quella consapevolezza sta la base del ventriloquio; il problema è poi arrivare al cuore, non solo del pubblico, ma anche del rapporto con lo spirito della bambola. E questo è superiore alle forze di Gautam Ghose, nonostante dedichi il film a Satyajit Ray, probabilmente per cercare ispirazione dalla divorante passione per la musica messa in scena in Jalsaghar (La Sala di musica, 1958), dove le classiche armonie sono maggiormente imparentate con le melodie della prima parte del film, affidata alla voce del primo proprietario di Urvashi.

Interessanti anche i riferimenti letterari, che ci aspetteremmo legati alla tradizione indiana e invece, come avviene per la lingua usata che è hindi mescolato inscindibilmente con l'inglese dalla forte inflessione indiana (soprattutto per esprimere luoghi comuni e frasi fatte), assistiamo ad una commistione con la cultura occidentale e dunque viene raccontato Tolstoj, citato Verne, sempre in funzione del rifiuto di ogni compromesso con il potere e di voracità. Bello che il cantante non riesca nella sua performance quando il suo intervento si configura come marchetta del partito al potere: la "bambola", sua coscienza, si rifiuta di cantare. Forse abbiamo ancora qualcosa da imparare dalla cultura popolare indiana, almeno quando sprona a non vendere l'anima.

Il regista nato a Faridpur nel 1950 ha realilzzato numerosi documentari (Hungry autumn; Land of sand dunes; Meeting a milestone; Beyond the Himalayas) e alcuni lungometraggi.

1980 : Maa Bhoomi;
1982 : Dakhal;
1985 : Paar;
1988 : Antarjali Jatra;
1992 : Padma Nadir Manjhi;
1993 : Patang.