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Doomu Adama ou seuls ceux qui savent iront au Paradis - Doom
Anno: 2001
Regista: Sy Alhamdou;
Autore Recensione: clarissa
Provenienza: Senegal;
Data inserimento nel database: 11-05-2001


Adama e eva

Un film africano cos’è’? Un film sull’Africa (Il colore viola o Amistad sono dei film africani?)? Un film di mano africana? Un film si sensibilità africana? Un film di produzione africana? E i documentari antropologici sull’Africa dove li mettiamo?

L’ambiguità che fonda e convive con il concetto di letteratura africana (c’è un bellissimo saggio contro la colonialista paternalista e commossa Blixen che ama indistintamente "cani e negri", scritto da Thiong’o) che non ha una storia scritta come la nostra e ha dovuto lottare per farsi riconoscere nel suo valore di fonte orale, si riflette e moltiplica nel cinema africano.

Io non so dirvi cosa sia un film africano ma il video Doomu Adama ou seuls ceux qui savent iront au Paradis è uno splendido esempio di quello che sicuramente io percepisco come un film africano nel senso di radicato nella cultura collettiva che vive di storia condivisa e ricordante, un bellissimo esempio filmato di miti fondatori che agiscono ancora oggi sul "fare comunità" africano e che si contaminano e quindi continuano a vivere in un presente che non li snatura. Un piccolo film affascinante che forma una trama inscindibile tra realtà e finzione tra mito o cinema e vita, che non resta più (o non ancora) fuori dal cinema; il racconto tradizionale che si faquotidiano sentire.

Il film inizia col caos, in uno di quei villaggi imprecisati dell’Africa (dove il tempo sembra, più che essersi fermato, essere più imprecisato dello spazio) donne che urlano e gesticolano, un corpo viene issato da un pozzo, poi un altro, tutto il villaggio multicolore e chiassoso in quest’assolata giornata di tragedia -non che traspaia il tragico dagli attori, tutti gli abitanti veri del villaggio vero, insomma la tragedia è giocata in modo scoperto, la recitazione è sottolineatissima, niente verosimiglianza con la realtà appunto perché la si interpreta dal vero- si raccoglie nella piazza del paese e il capo villaggio cercherà per tutta la giornata di far luce sull’accaduto, come in ogni giallo che si rispetti.

In tempi incredibili per le nostre economie narrative, almeno mezzora di frasi spezzate e urlate per sedare la folla che avvolta nei sontuosi abiti prende posto con stuoie e aggetti vari nella piazza, un'altra ora va per avere spizzichi e bocconi dell’accaduto e un’altra per la lenta ricostruzione dei pezzi; il villaggio sembra non conoscere la sintesi, più particolari anche si danno più ci si avvicina alla verità.

La verità dovrà dimostrare la giustizia della comunità e quindi fondarla, si parla in quanto amanti dell’ordine che si vuole mantenere perché non si può vivere nell’indeciso e dubbio. A turno amici e parenti, amanti e conoscenti esporranno la loro visione dei fatti ma non siamo nell’Oriente della verità relativa di Rashomon, nessun dubbio e gioco di apparenze, solo verità mancanti perché nascoste e non dette; alla fine il saggio del paese riuscirà a far tirare agli altri, increduli, le sconvolgenti conclusioni e i conti torneranno, gli animi si placheranno e le attività intorno al pozzo potranno ricominciare. Dopo il processo alla realtà straordinaria ritornerà la pace del mondo e solo dopo questa collettiva seduta di confessione generale e pubblica. Autocoscienza di massa con pozzo.

Poi c’è il privato, che in quanto tale deve essere reso pubblico, la storia di un’amicizia speciale tra Khandiou e Ndate di un’amicizia che va raccontata e lodata per poter giustificare il gesto delle due amiche e quindi seppellirle, e anche qui una buona mezz’oretta di lodi antinarrative non mancano, ma è questa dimensione di narrazione collettiva e rammemorante che rende il film speciale. A prima vista una storia di una forte amicizia, che generava ammirazione in tutto il villaggio; talmente amiche, le giovani, da accettare di sposarsi solo a patto che i futuri mariti diventino amici, poi solo Khandiou si sposa e Ndate inspiegabilmente resta sola e per di più vergognosamente incinta. Allora la storia si fa della perdita dell’onore di Ndate, che alcuni dicono aver intravisto uscire dalla capanna del dongiovanni del villaggio e dunque per questo sola e incinta e svergognata. Poi invece la storia diviene storia di un adulterio prematrimoniale, perché anche Khandiou è stata vista prima del suo matrimonio giacersi con lo stesso strafottente dongiovanni.

Nella confusione delle visoni il saggio porterà alla verità riflettendo sulle ultime ore e battute delle due donne, un gioco di riflessione sulla memoria collettiva reale e fantasmatica. A fondamento della società e della singolarità sta il mito di Adama e Ewa che getta luce sullo svolgersi delle vicende altrimenti insensate in questo psicodramma collettivo (come recitava la spiegazione del terzo premio video assegnatagli al festival), mito- racconto che è il dialogo della comunità ed è l’unità finale che rende sensati i frammenti di monologhi apparentemente incompatibili.

E sarà proprio l’ultimo dialogo delle amiche a suggerire la soluzione, pur nella sua forma apparentemente delirante (e necessariamente delirante, direi, visto che le domande e le risposte sono intervallate e trasportate dalle figlie che corrono da una all’altra, altro che possibilità di fraintendimento qui, qui è la necessità del fraintendimento all’opera). Ndate manda le figlie da Khandiou per dire che vuole essere aiutata a fare il cous cous, Khandiou stancamente le rimanda a dire che non ha voglia di fare il cous cous di qua e di là; allora Ndate disperata manda a dire che non ci si può permettere di avere pena di Adawa e non di Ava. Saputolo Khandiou si getta nel pozzo urlante e Ndate dietro piangente.

La soluzione e la realtà dei fatti è chiarita dal mito di Adama e Ewa, primi esseri creati che, nella noia dell’imprecisato paradiso, decidono di papparsi il pomo; Ewa lesta ingoia (la curiosità e l’azione sono della donna) e si rende quindi responsabile, ha la conoscenza e insieme le mestruazioni di condanna, e da qui i figli e la possibilità di essere scoperta quando pecca; invece un non bene identificato angelo del signore blocca Adama, l’uomo, non ingoia la conoscenza ma la tiene non nascosta sotto forma del suo pomo di adamo appunto e può peccare di nascosto e generare tragedie visibili.

E nel finale ecco lo scioglimento e il riconoscimento: la buona e innocente Ndate, che pur appariva colpevole, per convincere la peccaminosa Khandiou (che si nascondeva dietro un’apparente innocenza originaria, ma che in realtà che non aveva resistito al dongiovanni) a non lasciare il villaggio, si sostituisce, con buonamore della verosimiglianza, a Khandiou nella prima notte di nozze così da salvare l’onore dell’amica che ha dissipato la dote naturale; Ndate perde così irrimediabilmente e visibilmente l’onore, Ewa si sacrifica per mantenere la conoscenza nascosta e Adama vive nella menzogna della sua legittimità. Il male del peccato sta nella sua visibilità sociale.

Non se se l’amicizia delle donne sia amore (si lo so è la mia sensibilità occidentale, ma è poi a me che si mostra e il senso finale lo costruiremo un po’ assieme, no? qui parliamo di amicizia ma è solo una questione di termini, in cosa si differenziano amore e affetto? Il confine tra amici e amanti?) ma comunque è un’affascinante storia di segreti e affetti sacrificali. Ma anche un apologo sulla follia delle norme sociali della comunità che obbligano le donne, quelle invase per un attimo da Satana, a nascondersi e sentirsi colpevoli per la perdita del loro unico dono, mentre l’uomo basta che doni la dote, un bel sistema che si basa su prove tangibili e legittimità sociali, anche se potrebbe solo essere meno ipocrita del nostro.

Questo non per dire che noi siamo più civili o che il villaggio è più vero, ma che queste immagini e queste storie che io ho avuto la possibilità di perdere in Africa potrebbero non arrivare mai, dissipandosi come se fossero vita che scorre senza che nessuno la guardi. Se questo film africano, come la maggior parte dei film africani, non sarà mostrato in Africa allora potremmo risolvere il quesito iniziale che mi attanagliava: definiamo africano un film che difficilmente verrà mostrato in Africa (come invece lo sono in epoca di mondializzazione la maggior parte delle produzioni hollywoodiane, ma in fondo qui regna sempre un caos mitologico, i film western e i melodrammi musicali indiani attirano folle impensabili) e dunque non verrà riconosciuto lì come parte della cultura e dell’immaginario; ma il contromovimento vuole che lo stesso film possa essere mostrato fuori, il film africano come immagine che sarà fruita solo dall’Occidente colto, snob o compartecipe non importa, comunque festivaliero e marginale, e quest’immagine diverrà vessillo della cultura tradizionale africana. Non male come contraddizione che fonda il cinema e i rapporti di potere e visione tra occidente e paesi altri, noi ci divertiamo, ci commuoviamo e stupiamo coi leoni a tre teste (siano essi mostri di natura o maschere di cerimonia) ma i leoni a tre teste non esistono che per noi, non per i leoni stessi che non possono vedersi riflessi da nessuna parte. Il cinema africano è quest’immagine sottratta a i suoi produttori naturali e attori, ai suoi scenari, un’immagine sottratta a sé stessa che si mostra sempre in un altrove e si forma solo nel contatto con l’altro, un’assenza bellissima ma crudele visto che impedisce anche solo la possibilità dello stupore della propria immagine. Mi piace però immaginare che la sottrazione alla visione di questo piccolo video, finito di montare il giorno prima di essere mostrato al festival, non sarà forse infinita in questo villaggio indeterminato.